giovedì 16 maggio 2013

MIAMI BEACH * UNA NOTTE DA LEONI FRA CATALINA, MANSION E BAMBOO


Che la serata potesse prendere una strana piega, ho iniziato a capirlo nel primo pomeriggio, dopo la fine delle lezioni, quando il mio collega mi ha avvicinato con aria divertita, dicendomi: "Che cosa si fa stasera? Andiamo a una festa con i pischelli della scuola? Sai, c'è un tipo tedesco simpatico, Alex, col quale parlavamo in pausa, che ha invitato anche noi a questo party; si va in un paio di locali, pare, saremo una decina... ci fidiamo?". "Ma è uno della tua classe?", gli dico. "No, l'ho visto oggi per la prima volta, ma sembra alla mano". Esprimo qualche perplessità (a scatola chiusa) per due ragioni: 1) l'ultimo tedesco più o meno simpatico che ricordi è Horst Tappert, l'Ispettore Derrick, che si è scoperto di recente essere stato una colonna delle SS. 2) istintivamente mi fido poco dei gentili senza apparente motivo; quelli che non ti conoscono neppure e ti invitano caldamente a una bella festa, per esempio. Ma voglio - devo - pensare positivo, come Jovanotti, e aderisco con entusiasmo. Seratona con i pischelli? Perché no!? L'accendiamo.
L'appuntamento è alle 9.30 p.m. sotto la scuola. Ci presentiamo in 8, compreso l'ormai leggendario Alex, trentenne mesciato che parla un discreto inglese, sorride molto e ostenta confidenza con tutti. Soprattutto con chi non ha mai visto. Il crucco dal cuore d'oro guida il piccolo plotone in una breve passeggiata lungo la Lincoln verso l'hotel Catalina, sulla Collins, la nostra prima tappa.
Il Catalina è un piccolo hotel ristrutturato che ha la fortuna di essere piazzato proprio di fronte al Delano, uno dei must della vita notturna di Miami. Posizione invidiabile, scarsa notorietà, vive inevitabilmente di luce riflessa. All'ingresso un tipo piccoletto che ha l'aria di conoscere Alex (da questo momento, per noi, "il tedesco napoletano") sin dalle elementari, spara il prezzo a cranio: 40 dollari. Senza condizionale. E poi ci piazza al polso un braccialetto rosso, come nei villaggi turistici. Il nostro disappunto per il prezzo, non banale anche per Miami, viene attenuato dalla lettura di un rassicurante cartello lì accanto: "All you can drink". In pratica, non c'è limite alle consumazioni al bar, dove veniamo presentati a una riccioluta mulatta filiforme che sarà anche carina, ma che sulle prime (e anche sulle successive) non pare ferratissima nella nobile arte di preparare cocktails. Ci viene affidato un bicchierino di plastica trasparente con micro cannuccia nera e alcune minacciose scritte sul banco avvertono: "Non perdere il tuo bicchiere o smetteremo di servirti da bere". Non si fa menzione della cannuccia. Rido amaramente, anche perché una scritta simile non la trovi non dico nei peggiori bar di Caracas, ma neppure nell'ultima discoteca di Rimini. Anzi, soprattutto a Rimini. Ma come, mi fai pagare 40 dollari d'ingresso in un posto di serie B e poi vuoi che adotti un bicchierino di plastica per tutta la serata? Tutto questo a Miami? Non mi parte un oltrepadano "vadavialcü" perché so che sarei capito solo da alcune minoranze oggi scarsamente tutelate. Ordino un Cuba libre, il bicchierino si riempie soprattutto di ghiaccio, ma la ragazza mi serve un drink più che dignitoso. Vabbé, dai, almeno si beve bene. Avevo parlato troppo presto: al secondo Cuba, che arriva di lì a poco, la Donna Summer del cicchetto mantiene la stessa Coca alla spina, ma passa a un Rhum di terza categoria. Trucchetti. Un Italian Job de noantri. Al terzo bicchiere le richiedo il primo Rhum, ma dolente mi spiega che quella marca è finita e che i superalcolici nella lista dell'all inclusive sono solo 7, come i peccati capitali. Tutto il resto al bar va pagato a parte. Mi consolo con una tequila e Coca sperimentale che non sfigura rispetto alla brodaglia spaccafegato dello step precedente.
Mentre con i ragazzi (una coppia di tedeschi e alcuni francesi davvero simpatici) ci intratteniamo su un balconcino affinando il nostro inglese, quasi allo scoccare della mezzanotte, arriva l'ora X. Di fronte al Catalina, sulla Collins, spunta un grande pullman scuro della South Beach Party Tours, già mezzo pieno di predestinati allo sballo. Gente tutto sommato elegante, non teppaglia. Anche noi otto pischelli saliamo a bordo baldanzosi. Le porte si chiudono. Enjoy. Non sapevo di avere appena iniziato un viaggio di 35 minuti che si sarebbe rivelato l'esperienza della mia vita più vicina all'idea di deportazione. Dopo altre due soste per caricare sventurati, il pullman - senza posti a sedere, luci interne soffuse rosse e blu, solo degli scintillanti pali modello lap dance per reggersi in piedi, e musica quasi a palla - risulta pieno all'inverosimile. Calca e sudore a livelli intollerabili e prime saracche in tutte le lingue del mondo sono il piacevole menù. L'autista ha anche una guida brillante che mal si concilia con la situazione di evidente precarietà. Io sono all'oscuro di tutto quel che succederà dopo, come un sequestrato ma senza cappuccio. Sdrammatizzo urlando ogni tanto: "Next stop, Auschwitz!", e asciugandomi il naso che gronda autentico sudore sul braccio di una ragazza americana che si regge al mio stesso palo (no allusioni, please) e che ha pensato bene di piazzarmi l'arto proprio davanti agli occhi. Errore madornale. La mia vicina d'oltralpe, fra un mancamento e l'altro, assicura che stiamo andando al Mansion, "la miglior discoteca di Miami". Dopo molti, interminabili minuti, il carro bestiame si ferma nelle vicinanze del Mansion, e quasi tutti scendiamo, grati ognuno alla propria divinità per il fatto di essere ancora vivi e a destinazione. Errore da pricipianti: non tutti vanno al Mansion. Buona parte di noi è costretta a risalire sul pullman per affrontare la seconda e ultima tappa: il Bamboo. Il premuroso Alex, in breve, ci aiuta a ritarare la classifica dei migliori club di Miami, che è stavolta - ovviamente - guidata dalla discoteca dove stiamo per andare noi, non gli altri sfigati. Il Mansion? Ma chi se lo fila? Bamboo tutta la vita.
Davanti all'ingresso, Alex ci fa aggiungere un braccialetto giallo fluorescente a quello rosso già in dotazione, e ci mostra l'accesso privilegiato. In pratica, grazie a quello entriamo saltando la breve coda. Sulla porta il buttafuori calvo squadra me e il mio collega e ci chiede in inglese l'ID, il passaporto. Lo vede, rosso fiammante, e aggiunge, in perfetto italiano: "Di dove siete?". "Di Milano...". "Ah, allora siamo vicini: mì su de Zéna"...
Superato in breve lo stupore per il buttafuori al pesto, entriamo nel magico mondo del Bamboo. Nonostante sia mezzanotte e mezza, praticamente apriamo il locale, popolato quasi solo da barwoman indaffarate. Il posticino è effettivamente ben tenuto, ricavato all'interno di un vecchio cinema da non più di mille posti. Maxi schermo led e banco del Dj al posto dello schermo di proiezione, ampio privée e zona bar sottostante, la platea trasformata in pista da ballo, e spazio per eventuali appuntamenti live nella piccola galleria. Che stasera rimane vuota, ma completamente attrezzata di strumenti musicali. Il volume è già altissimo, anche perché tutto il locale è disseminato di casse dall'inaudita potenza nascoste anche nei posti più impensabili. Mi sento come Wanna Marchi a una convention della Guardia di Finanza: un tantinello fuori posto. Ma la grande beffa continua, e l'ultima cosa che vorrei - a questo punto - è sottrarmi al finale.
Alex l'Ariete ci invita a esaminare la ricca lista (speciale, retroilluminata, ottima idea regalo) per ordinare eventuali bottiglie al tavolo. La più economica è un Rhum da 350 dollari; la più cara, un set da 6 bottiglie di una marca di "champagne" americano pressoché sconosciuto in Italia che ti assicuri alla miserabile cifra di 8.500 dollari. Se ordini una bottiglia sola, te la porta la super topolona del locale: una Venere nera in costume intero che lascia senza fiato. Si ferma un po' a fare pr, ti stappa la bottiglia, si fa fotografare e fotografa tutta la combriccola, e poi se ne va. Se ordini il fantozziano super set da 6 di champagne (c'è anche una versione per non abbienti da 7.000 dollari, praticamente regalata) arriva la Venere nera senza nulla in mano ma accompagnata da tre topoline di gran pregio recanti due bocce (si parla sempre di bottiglie) da litro ciascuna. Il quartetto entra in scena improvvisando un balletto. Se il titolare del Bamboo sapesse che per la stessa cifra, anche meno, potrei portare tutto l'ambaradàn da solo coreografando al contempo perfettamente "La morte del cigno", credo che mi avrebbe già arruolato in squadra. Lo considero comunque un ottimo piano B per chiunque, fateci un pensiero.
Facciamo capire ad Alex che tutte le proposte, compreso il taglio minimo da 350 dollari, ci sembrano - come dire?- un po' penalizzanti, ma quella generosa sagoma germanica ha già pronta la soluzione: "Non c'è problema, ragazzi: facendo il mio nome vi daranno una bottiglia di vodka a 150 dollari". Ovviamente a questi prezzi modello "chiude, liquida tutto" la topolona te la scordi, ma i ragazzi del gruppo accettano il deal. A me non piace la vodka. E neanche Alex, per dirla tutta. Quindi dopo aver ballicchiato un po' (il volume dellla disco-house-techno-progressive del Dj Captain of Industry ormai è insostenibile, su alcuni bassi vibra persino la cistifellea, tanto che alcuni ragazzi scafati in pista portano provvidenziali tappi per le orecchie) me ne sto appoggiato a un cancelletto che conduce al privée open air a bearmi di questa umanità in trappola. C'è un po' di tutto: dalla coppia chiattona/esibizionista che limona come se non ci fosse un domani (e forse non c'è), a una cubana sui 35 stimati, sesta di reggiseno, che fuma il sigaro maliziosa appoggiata al banco del bar. L'ammiccamento del sigarone devo ancora capirlo... E poi tanti pischelli, impegnati in pista nella legittima teoria dello struscio danzereccio. Che nasconde tante aspettative spesso disattese. Le cubiste sono quattro, autentiche professioniste del settore, che si muovono come automi, ma l'inquietante numero centrale della serata arriva verso le tre: in pista fra la gente trova posto un performer che indossa un costumone finto metallo laccato bianco stile Predator. Spaventa tutti per un po', poi viene cacciato da due pulzelle che salgono sui cubi imbracciando altrettanti enormi pistoloni che sputano fumo e coriandoli. Non si può riprendere la scena con lo smartphone perché i gestori del locale vogliono evitare che il mini show finisca su Youtube. Capirai...
Mentre contemplo il mostro che se ne va, succede il miracolo: all'improvviso mi transita accanto la Venere nera, l'inarrivabile regina del Bamboo; quella che non degna essere umano di uno sguardo a meno che non strisci la carta di credito almeno per il tappo da 350. La Naomi de-incazzosizzata passa, si volta, mi guarda reclinando leggermente il capino in un sorriso dolce e affettuoso, e mi sfiora il braccio delicatamente, per tre volte. Io la guardo, ricambio il sorriso, le faccio l'occhiolino e scuoto la testa in segno di diniego. L'invidia accanto a me è palpabile. Che cosa avrà mai più di noi questo buffo italiano sovrappeso per avere meritato tanto? Perché la magnifica preda dovrebbe interessarsi proprio a lui? Certo che la vita è ingiusta e ingrata... Non ha neppure un Rolex al polso, né un Ferrari o un Lamborghini parcheggiati all'ingresso. E poi, diamine, quali donne magnifiche frequenterà in Italia uno che si permette di dire no a una femmina di questa portata?
Li lascio macerare nell'invidia più cupa. Anche perché spiegare loro che quel sorriso e quelle languide carezze erano il risarcimento per un pestone non banale che la distratta dea aveva assestato all'alluce del mio piede destro, non farebbe curriculum. A volte le cose sono molto, molto più semplici di come ci sforziamo di interpretarle.

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