lunedì 3 luglio 2017

ADDIO PAOLO VILLAGGIO, VORREI CHE MI RIFACESSI IL MONOLOGO DEL FRIGORIFERO

Paolo Villaggio
Da una vita aveva il vezzo di ripetere che sarebbe morto a capodanno. Non è stato di parola. Un 3 luglio qualsiasi, un gigante del suo calibro non se lo meritava.
Se dovessi indicare uno dei dieci punti di riferimento del mio percorso di cultore dello spettacolo e anche di cinefilo, ai primi posti metterei senz'altro quel genio pigro e compreso di Paolo Villaggio. L'uomo che con i ragionieri Fracchia e Fantozzi ha tratteggiato meglio di Leonardo Da Vinci e con una realistica spietatezza senza pari la figura del travet italiano e le meschine logiche della vita d'ufficio. L'attore ligure, 84 anni, si è spento al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da alcuni giorni. Con la morte scherzava spesso. Anzi, sempre. Per esorcizzarla e perché sapeva che mettendola in mezzo una risata cinica la strappava senza fatica. Mestiere.
Lascio ad altri ricordi più freddi, biografici e impersonali e mi concentro sul «mio» Villaggio, anche perché di recente mi ha fatto l'onore di regalarmi quello che credo sia il suo ultimo scritto: un capitolo impagabile, dettatomi tutto al telefono, del mio libro «Il peggio della diretta» (Mondadori Electa). È un pezzo di bravura sulla perdita di memoria dell'attore, vergato con la cifra fantozziana a lui così cara e congeniale.


Faccio un passo indietro per ricordare quando conobbi Paolo, una vita fa, al festival della tv Numero Zero, a Merano. Lavoravo per il quotidiano il Giornale e lui era ospite dell'organizzazione insieme con Neri Parenti, regista di riferimento degli ultimi capitoli della saga del ragioniere più sfigato d'Italia nata con Luciano Salce. Incontravo un mio mito durante il gala di chiusura, quindi mi tremava anche il colon. Nonostante tutto, ebbi il coraggio di «cazziarlo» per avere ucciso, con troppe repliche incolori e con la complicità di Parenti, la maschera più bella del cinema italiano. Rimase molto colpito da questa mia schiettezza, mi diede anche parzialmente ragione (alle necessità del portafogli spesso non si comanda) e ci lasciammo con un sorriso.
Poi lo richiamai per qualche sporadica intervista, e ogni volta era la stessa storia: non ricordandosi degli incontri precedenti, prima ti intervistava lui. Voleva sapere chi fossi, da dove venissi, molto interessato a provenienza e albero genealogico. Poi il mio cognome, Bagnasco, si associava volentieri a ipotesi di cardinalizie parentele. Magari tu avevi anche fretta, ma lui prima di parlare ti faceva un (legittimo) interrogatorio di 20 minuti. Una volta sciolto il ghiaccio, entrava in gioco l'istrione. Al telefono mi avrà fatto almeno tre volte il monologo del poveraccio a dieta che si alza di notte con i crampi, alla debole luce del frigorifero appena aperto, a caccia di trippa o qualsiasi cosa di edibile. E intanto ulula come i lupi della steppa. Una delizia di repertorio che non sarei minimamente in grado di riprodurre. Queste cose, lui e soltanto lui. Che in un libro (e in uno spettacolo teatrale) si era coraggiosamente autodefinito: «Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda».


Nel libro, un capitolo scritto da Paolo Villaggio.
Per il suo capitolo nel mio libretto, «Il peggio della diretta», lo chiamai almeno cinque volte. Villaggio non aveva computer e non batteva manco a macchina (un po' se ne vergognava), quindi mi disse: «Ok, lo faccio. Senti, Bagnasco: non puoi farmi chiamare da un tuo schiavo, così detto tutto a lui?». E lo disse con l'inconfondibile voce bassa e impastata del Villaggio che simula cattiveria. «No Paolo, mi spiace, non ho schiavi, faccio tutto da solo. Ma non ti preoccupare, ci mettiamo il tempo che ci vuole. Per me è il più grande degli onori solo il fatto che tu abbia accettato». Si tornava indietro passo passo e si correggevano anche le virgole.

Grazie Paolo, per tutto. Per le risate, su carta e pellicola. Per il tuo genio un po' buttato via, a volte. Per un cinismo che era rosolio. Era miele. Perché la tua imitazione, che ho in repertorio da una vita, me la gioco sempre nei momenti migliori. «Fantozzi» è stata la tua Gioconda. E parafrasandoti lasciami fare per una volta la parte del ragionier Filini: «Muori, muori lei!». Che cosa fa, mi dà del tu?». «Mannò, è congiuntivo!».

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