giovedì 14 dicembre 2017

COMPIO 30 ANNI (DI GIORNALISMO) E LI CELEBRO CON LA LETTERA CHE MI SCRISSE INDRO

Il Telegatto che consegnai ad Anna Fontana per il suo prepensionamento.
La lettera che nel giugno 1993 mi scrisse Indro Montanelli.
Fatemi gli auguri perché compio 30 anni. Non ci credete? È vero, giurin giuretta. Non anagrafici, purtroppo (quelli sono 49), ma professionali. 30 anni passati a cercare di servire al (mio) meglio questo mestiere, sin dal lontano novembre 1987, quando firmai il primo pezzo su «La Provincia Pavese».
Oddio, sulla carta era stampato il mio nome, ma - per essere sinceri - il testo non era manco mio.
Avevo iniziato a collaborare da appena tre giorni seguendo la zona dell'Oltrepò collinare, quando un ragazzo del mio paese, Santa Maria della Versa, morì in un incidente stradale. Mi spedirono a cercare notizie e (soprattutto) a chiedere la sua foto alla famiglia. Il peggiore dei battesimi: forse potete immaginare che cosa voglia dire, psicologicamente, suonare al campanello di qualcuno che ha appena subito un grave lutto, per andare a cercare una foto del parente da mettere sul giornale. La cronaca (locale e non) a volte è spietata. Ti senti un verme, ti aspetti di essere cacciato a calci nel sedere, senti l'imbarazzo che ti si accende sul viso; vorresti sprofondare. Forse non avrei manco dovuto avere un senso di colpa, ma ero giovane, inesperto, e suonai quel campanello sentendomi né più né meno una merda. Perdonate il francesismo.

Poi in realtà mi accolsero con affetto, conoscendomi da anni, scelsero con cura quella foto e parvero persino felici che il giorno dopo si parlasse un gran bene sul giornale del loro povero ragazzo scomparso per una beffa del destino. Ero distrutto. Partii mogio per la redazione di Pavia con qualche informazione più o meno rabberciata (era tardi, e bisognava chiudere) e quella benedetta foto in mano. In uno stanzino per riunioni mi accolse un collega assunto, Claudio Salvaneschi, che raccolse foto e notizie. «Grazie mille, puoi andare», mi disse infine composto senza aggiungere altro. Il giorno dopo trovai il mio primo articolo sul giornale: quattro cartelle scritte da Claudio ma firmate col mio nome e quella foto grande grande. Non avrei mai voluto debuttare in quel modo: con una tragedia che fra l'altro mi toccava indirettamente e un pezzo che non avevo materialmente scritto. Ma andò così. E c'è poco da fare.
«La Provincia», come si dice spesso in questi casi con un luogo comune che mai avrebbe potuto essere più calzante, fu una vera palestra. Devi imparare a scrivere in genere tanto e con poche informazioni (quindi spesso rigirare frittate), pagato pochissimo, molto velocemente (l'equivalente del web per molti giovani colleghi oggi); devi reperire le notizie, farti venire spunti per animare il dibattito politico locale; e poi col tempo e con i tagli ai tuoi pezzi inizi pian piano a capire come si lavora. «Tagliamo, tagliamo: non affezionarti troppo alle tue parole», mi sfotteva un vecchio caposervizio. Oggi sono ancora affezionato alle mie parole, naturalmente, ma molto meno.

Iniziai con la cronaca, ma a me interessava lo spettacolo, sempre e solo quello. Ero in fissa con quello. Così pian piano (tra un pezzo sui lavori al manto stradale della provinciale e un consiglio comunale) m'intrufolai nel settore. Vennero i primi concerti, le prime conferenze stampa a Milano, per tv e musica (fra treno e metro, lavoravo in perdita), e poi il passaggio a «il Giornale», diretto da Feltri (il Feltri di allora, non l'odierno) con Maurizio Belpietro infaticabile uomo-macchina. M'inventai una rubrica di dietro le quinte della tv,
Pippo Baudo e Rosanna Mani.
«Bassa frequenza», che più di ogni altra mi aiutò a far girare la firma, e mi divertii parecchio in altri sei anni di adrenalina.
Così, dopo 12 anni da free lance, Pierluigi Ronchetti e soprattutto Rosanna Mani (l'eminenza grigia) mi assunsero al settimanale per il quale avevo sempre desiderato scrivere, quello che ogni mercoledì da tutta la vita mio padre comprava in edicola e poggiava accanto al televisore: «Tv Sorrisi e canzoni». «La Bibbia dello spettacolo», come veniva definito. Una storia intensa, durata 17 anni. Ora c'è questo periodo di cattività ma si lavora nelle sedi competenti e vedrete che presto, come è vero Iddìo, in un modo o in un altro le cose si sistemeranno al meglio. Giustizia e rispetto, si era detto. E Giustizia e rispetto riporteremo a casa.



Quello che ho allegato a questo scritto bio-celebrativo è un reperto storico. Una lettera che mi scrisse Indro Montanelli nel giugno 1993. A casa si leggeva «il Giornale» di Indro (il più grande di sempre, insuperato e inarrivabile) e io mi bevevo letteralmente tutti i suoi ficcanti editoriali e le taglienti, esilaranti recensioni cinematografiche di Massimo Bertarelli.
A 25 anni, giovane giornalista, scrissi a Indro dopo che nei Tg balenò l'ipotesi di farlo Senatore a vita. La risposta (che in tutta

onestà manco mi aspettavo, ma se uno è un signore si nota) è quella che potete leggere oggi.
Non sapete quanto l'abbia cercata per anni, questa lettera che credevo persa, sfuggita persino alle maglie di mio padre, buonanima, che archiviava tutti i miei scritti, anche i più infimi, e ciò che giornalisticamente mi riguardava; è sbucata due settimane fa improvvisamente da un cassetto. Non ci speravo più.
Ne faccio il simbolo di questi 30 anni, di ciò che verrà in futuro, e vi ringrazio per la pazienza di essere arrivati a leggere sin qui.

P.S.
Non facciamo parallelismi. Sia chiaro che non cado e non cadrò mai nella facile trappola (in cui cadono alcuni) di paragonarmi a Montanelli. Come Indro c'era soltanto Indro. Il resto, nel 90% dei casi, è solo cialtroneria.



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