"Giovanni Ciurretto ti ha invitato a mettere like a Giovanni Ciurretto". "Marcella Stragnelli ti ha invitato a mettere like a Marcella Stragnelli". "Ottavio Ragnazzi ti ha invitato a mettere like a Ottavio Ragnazzi". Ma io mi domando: che cosa ve ne fate di tutte queste Fan Pages che non sono altro che un duplicato del vostro profilo Facebook? Manco foste un'azienda, cantanti in classifica o notissimi divi hollywoodiani.
E' vero, le Fan Pages hanno alcune funzionalità di controllo del traffico maggiori e alcune feature attraenti per la vendita on line, ma sono anche solitamente una fregatura perché per posizionarle meglio nelle visualizzazioni, FB chiede soldi. E lo fa a volte in modo abbastanza insistente. Senza quelli, resti al palo. Quindi, se la tua popolarità è a livello poco più che condominiale, tieniti la tua bella pagina normale lasciandola magari aperta, in modo che ai contatti (le "amicizie") si possano aggiungere spontaneamente ed eventualmente anche i followers. Dà retta a un pirla.
Il «Like» o «Mi piace» di Facebook. Attenti ai social che chiedono soldi.
Date retta, non aprite fan pages o similari su Facebook.
Limitatevi alle pagine normali, da utenti, a meno che non abbiate una grossa (davvero rilevante) attività commerciale. Primo, perché nella maggior parte dei casi, non avete un reale motivo per farlo ma si tratta soltanto di un'inutile extension dell'ego. La vana speranza di limitare qualche frustrazione in materia di visibilità. Per questo scopo è più che sufficiente la pagina standard, che ha il limite di 5.000 contatti, ma che consente ormai di essere seguiti senza limitazioni.
Secondo, perché le altre pagine di Mr. Zuckerberg all'inizio vi sembreranno visibili all'esterno e piacevoli (avendo anche le statistiche dei contatti e pochi altri sfiziosi giochetti), ma di lì a pochissimo il sistema inizierà a chiedervi insistentemente soldi per promuoverle. Visto che nascono per quello, non per farci felici. Sarete bombardati di «promuovi» questo post, «pubblicizzalo perché ha migliori prestazioni», ecc. che spuntano ovunque. E se non lo farete perché fatti due conti non vi interessa o non vi conviene, l'algoritmo di Mark penalizzerà le vostre fan pages rendendole sempre meno rintracciabili dal motore di ricerca e sempre meno visualizzabili nelle altrui time line. Comprese quelle di chi vi ha messo il like alla pagina. Per convincervi a scucire, ovviamente. Insomma, date retta a uno scemo: state nei primi danni (come si dice dalle mie parti) e tenetevi i semplici profili che avete. Oppure provate e poi sappiatemi dire.
Ogni tanto mi capita di imbattermi nel profilo Facebook di quelli che, accanto al nome, si autodefiniscono. Comprendo, in un mondo che spesso spersonalizza, la necessità di trovare una collocazione, magari anche professionale. Ma a volte si diventa ridicoli. Ieri ho letto (il nome è di fantasia): «Mario Rossi fotografo dei Vip». E mi è venuto molto da ridere. Primo perché mi piacerebbe sapere a quali Vip si riferisca. Oggi il panorama è talmente scialbo, che magari questo tizio considera Vip qualche tronista o avanzi del «Grande Fratello». Niente di più facile.
Poi perché me lo vedo, il «fotografo dei Vip», che la domenica corre nel paesino sperduto, a fare il matrimonio di Concetta Picchiazzi e Antonino Scialla, oggi sposi, che chiamano il fotografo dei Vip per sentirsi un po' Vip anche loro. Con gli invitati Vip che chiedono al fotografo dei Vip di raccontargli di quella volta memorabile in cui aveva fotografato Alessia Merz. E lui che fa: «Eh, sapeste... Ne avrei da raccontare». E che bella torta Vip, tra flute di prosecco Vip e quell'arietta Vip che si sparge tutto attorno, nella tenuta Vip affittata per il banchetto. Peccato ci abbia già pensato Mengacci, sennò sarebbe un programma.
Un migliaio di auguri, tra Facebook, Twitter, Whatsapp, YouTube, telefonate, Skype e quant'altro.
«Che faccio, signore, è mezz'etto in più, lascio?».
In questi tempi social viene la tentazione di pesarli un tanto al chilo, persino gli auguri, che continuano incredibilmente ad arrivarmi anche oggi, The Day After. Invece anche lì, come per tutto nella vita, più che sulla quantità bisogna ragionare sulla qualità. Perché gli auguri che mi avete fatto quest'anno sono stati davvero speciali, soprattutto per il momento che da parecchio tempo sto attraversando. In parte forse sapete, in parte intuite, senza dubbio condividete, e sono felice che questa cosa vi sia arrivata. In purezza, come direbbero gli enologi.
Siete stati motivanti, appassionati, caldi, creativi (per esempio Francesca Gregni, che ringrazio per questa composizione messa insieme andando a recuperare una mia foto di una quindicina di anni fa, quando ancora andavo in giro senza bavaglio e mi divertivo facendo il mio lavoro). Siete stati e siete state un balsamo; quello che mi ci voleva in questo periodo strano, di cupezze, di mortali lungaggini burocratiche per arrivare alla Giustizia, passo passo, ma anche di necessità di lottare. Per il rispetto basico (che qualcuno mi ha fatto troppe volte mancare) e per salvaguardare i principi sacrosanti di un mestiere nel quale ancora credo.
«Io sono ancora qua», cantava Vasco. Sono parecchio ammaccato, ma ho intenzione di restarci. Tengo botta. E non posso fare altro che ringraziarvi di cuore, uno ad uno, perché in una fase down mi avete dato nuova forza per continuare. Lo faccio per me, certo, ma lo faccio (anche) per tutti. Perché il giornalismo è di tutti. Questo, per favore, non dimenticatelo mai.
Al Bano, Milly Carlucci, Adriano Pappalardo e Rita Pavone
La fake inserzione con la morte di Al Bano.
C'è una pratica a mio avviso davvero poco degna (per limitarsi a questa espressione) che va «in scena» ogni giorno sulle pagine Facebook, il social-network più amato e impattante sul pubblico. Una cosa che mina seriamente la credibilità della stessa piattaforma e che purtroppo non fa onore a Mark Zuckerberg e compagnia.
La bufala spot con la morte della Carlucci.
Si tratta delle inserzioni fake (le cosiddette bufale di cui è pieno il web, ma stavolta a fini promozional-pubblicitari) che speculano su finti morti celebri dello spettacolo. Posto qui alcuni inequivocabili screenshot nei quali mi sono imbattuto solo nell'ultima settimana di navigazione, ma il principio è semplice: si prende la foto di un vip più o meno stagionato dello showbiz nostrano, abbinandola al titolo di un advertising (compaiono nella timeline sul lato destro dello schermo con la dicitura «Sponsorizzata») che inequivocabilmente ne annuncia la morte o la lascia presagire. Non è vero niente, ma la tentazione di cliccare per
Un altro falso: la morte di Pappalardo
saperne di più è forte. Sotto, il link di qualcosa che potrebbe sembrare un sito di news o non si comprende bene cosa. Una volta cliccato, si viene reindirizzati su una pagina pubblicitaria con inserzioni e informazioni di prodotti in vendita che ovviamente nulla hanno a che vedere con l'annunciata morte della celebrity in questione, usata come specchietto per le allodole. Ma ormai il gioco è fatto, e il click viene portato a casa dall'inserzionista.
Si ammicca alla scomparsa di Rita Pavone.
Con questo discutibilissimo metodo, negli ultimi tempi ho visto «morire» Al Bano Carrisi (che di recente ha avuto, com'è noto, diversi problemi di salute ma non è affatto passato a miglior vita), Adriano Pappalardo (da un po' di tempo lontano dai clamori della tv ma in salute), la non più giovanissima ma gagliarda Rita Pavone (per lei la fake inserzione sta un po' più sul vago, si fa per dire) e persino Milly Carlucci, che si conserva assai bene e che ogni sabato sera su Raiuno conduce «Ballando con le stelle».
Un altro addio per Al Bano Carrisi.
Personaggi la cui immagine e la cui finta, presunta morte, viene utilizzata (immagino a loro totale insaputa) di fatto a fini pubblicitari. In un contesto sgradevole. Chiedo - ma dovremmo essere in tanti a farlo - a Facebook di far cessare quanto prima questa pratica, vagliando con estrema attenzione le campagne di
La pag. che si apre cliccando sulla morte della Carlucci
advertising create da questi sprovveduti inserzionisti. Avallandole, il social network, che pure di riflesso guadagna sui click, si rende di fatto complice di questa pratica. Che non può continuare, per etica, legge, e per l'immagine stessa dell'azienda. Qui ci sono le prove di quel che dico: attendo (attendiamo) spiegazioni e la rimozione delle ADV incriminate. Sarebbe comunque bene che anche programmi come «Le iene» o «Report» andassero più a fondo nella questione.
Allora, Facebook (metto l'hashtag così fa più social), anzitutto volevo parlarti del tuo «A cosa stai pensando?» che ogni giorno mi piazzi lì, in grigiolino, nella finestrella dello status. Quel che sto pensando a volte te lo dico, a volte no. Sono in massima parte affari miei, e decido se condividere o meno. Non prendertela. Ma a volte sembri una fidanzata di quelle lagnose, che dopo avertelo domandato tengono il broncio per due settimane se intravedono un ritardo o un'incertezza nella risposta. Ma, giusto per rompere le balle, vorrei dirti caro Facebook che la forma più corretta in italiano sarebbe «A che cosa stai pensando?». L'altra è molto usata, ma meno corretta. Giusto per fare il pignolo, lo so. E poi «Dì che ti piace prima di tutti gli altri». A parte che il di' vorrebbe l'apostrofo e non l'accento (dicci! imperativo) ora, amico social network, la vera domanda è: perché? Che cos'è, una gara di velocità? Sono più furbo degli altri se metto il «mi piace» prima, chessò, di mio cugino? Devo forse svegliarmi presto per non perdere la priorità acquisita?
Non pubblica mai niente, ma ogni lunedì –
puntuale come una cartella esattoriale - certifica con noia infinita
l’esistenza di questo drammatico giorno della settimana. Giorno che lo annienta
nel fisico e nel morale e che guarda caso coincide con la ripresa del lavoro.
Si faccia vedere da uno bravo, oppure passi direttamente al martedì. Che poi
gli toccherà odiare. Magari su Twitter.
9) LA GLITTERATA
Diffonde solo post con immagini
sdolcinate, tipo cuoricini, angioletti, cagnolini, gattini e fatine glitterate.
In genere ha 84 anni e si connette dalla casa di riposo. Bella zia.
8) IL COMMENTATORE A CAZZO
Non lascia mai un tuo post senza un
commento. Lo considera peccato mortale. Piuttosto scrive in calce: «Viva il
parroco!», ma qualcosa deve mettere per forza. Sennò è squalificato.
7) IL DOMANDONE
Chiede a gran voce ulteriori spiegazioni
rispetto a quello che hai scritto nel tuo post. Cose che potrebbe serenamente
cercarsi da solo sul web, ma vuole saperle da te. Soltanto da te. Senza
accorgersi che in genere la risposta è già contenuta in uno o più commenti
precedenti. Che ovviamente non si è premurato di leggere.
6) IL BATTUTARO
Ritenendosi molto arguto e spiritoso,
confeziona giornalmente battute a raffica. Alcune riuscite, altre meno,
ovviamente. Caratteristica del battutaro è quella di richiamare frotte di altri
battutari, ancora più temibili, che commentano cercando di replicare con calembours
sperabilmente più divertenti di quello originario. Il risultato, nell’insieme,
è a volte drammatico.
5) LA SELFISTA
Regina del selfie, posta con cadenza
giornaliera foto dove appare da sola o con accanto l’amica d’ordinanza al party
di grido. Entrambe hanno il cocktail fra le mani e la bocca a culo di gallina.
4) IL POLEMICO
Il polemico a ogni costo ha come unico
scopo quello di far notare il proprio ego smisurato su profili molto più
frequentati del suo, che in genere è estremamente disadorno di contatti.
Ingaggia pretestuosi (e infiniti) duelli verbali con l’autore del post, che si
concludono con i due che mantengono le rispettive opinioni, e nel frattempo si
sono mandati affanculo bannandosi per l’eternità. Per il quieto vivere, il
polemico andrebbe bannato al secondo post.
3) L’AMICONE AMICONE
Non l’hai mai visto, eppure ti invia una
richiesta d’amicizia. L’accetti. Da quel momento ti ritrovi la timeline, la
bacheca, la posta privata e le notifiche sommerse di inviti a sagre della
porchetta, mostre di quadri impressionisti (nel senso che fanno impressione),
concerti di gruppi sconosciuti anche ai familiari, beveroni dietetici da
comprare in multi level marketing e raduni della P2.
2) IL TAGGATORE
A Natale, Pasqua, Capodanno e a tutte le
feste comandate, pubblica una simpatica foto augurale e tagga te insieme a
tutti gli utenti Facebook della Lombardia. Te ne accorgi e riesci a disattivarle
quando ormai le notifiche e i like hanno superato il Pil del Giappone.
1) L’ODIATORE PAVIDO
È il più pericoloso di tutti. Ti detesta,
ma per qualche inspiegabile ragione (l’invidia e la curiosità) non si cancella dai
tuoi contatti. Si guarda però bene dal criticarti apertamente. Il solo scopo
della sua esistenza in vita è mettere un malizioso like ai commenti di coloro
che ti criticano. Gli odiatori pavidi più avveduti non mettono subito il loro «Mi
piace» furbetto, ma aspettano che il tuo post sia leggermente invecchiato. Come
il vino buono.
Facebook è per chi ha qualcosa da dire. Twitter per chi ha qualcosa da comunicare. Sottile differenza, ma non trascurabile. Instagram per chi ha qualcosa da mostrare. E anche se una foto a volte dice più di mille parole (Cit. Baci Perugina), continuo a preferire Facebook. Al netto dell'egogentrismo di chi ci mette del suo nel postare, dei commenti di qualche frustrato, e dei tanti difetti di una piazza senza regole. Ma bella proprio perché non ne ha. I 140 caratteri di Twitter sono troppo pochi per esprimere qualcosa di compiuto. E Instagram per troppa gente è solo esibizionismo insistito, filtri che modificano la realtà. Che la piegano al proprio volere. Che trasformano in bello ciò che bello non è. Il coniglio che esce dal cappello. E la bellezza è un valore. Se lo tarocchi, prendi in giro prima di tutto te stesso.