sabato 9 giugno 2018

CABARET O STAND-UP COMEDY? IN ITALIA LA VIA PURTROPPO È UNA SOLA

George Carlin, forse il più noto stand-up comedian americano.
Non molto tempo fa sono andato a vedere, qui a Milano, una serata di cabaret con un po' di nuovi talenti. Alcuni bravini, alcuni negati, altri con potenzialità ma senza testi di rilievo. Vabbé, niente di nuovo.
Mi ha colpito però una ragazza con la quale ho scambiato due parole prima dell'esibizione. «Anche tu fai cabaret?», le dico. Risposta, un filino risentita: «Prego, io faccio stand-up». Come a dire: faccio parte di una categoria superiore. Il riferimento è alla scuola degli irriverenti, spesso volgarissimi e dissacranti, alcuni geniali stand-up comedians americani, che probabilmente la tipa ha come punti di riferimento. E fa bene.

Posto che dire a qualcuno «Fai cabaret?» non è ancora un'offesa (almeno credo), la ragazza lamentava il fatto di essere, in passato, stata scartata da «Zelig», che di conseguenza odiava. Purtroppo la vera stand-up comedy in Italia non può esistere se non in piccoli locali o cantine carbonare. Non può avere dignità televisiva su reti generaliste a causa dell'impronta fortemente cattolica e/o bigotta del Paese. Le volgarità, anche se fanno ridere o contengono semi di genialità, non trovano cittadinanza sulle nostre grandi reti in prima serata. E per molti versi è anche comprensibile.

L'unico che aveva sdoganato qualcosa (con moderazione) fu Daniele Luttazzi, che infatti poi si è scoperto copiare a man bassa proprio dai testi degli stand-up comedians americani.
Mi spiace che la ragazza (fra l'altro la migliore della serata) si senta frustrata, ma qui da noi non ci sono altre vie. Mi spiace però anche che si senta offesa dalla domanda «Fai cabaret?». Perché il nostro cabaret, magari un po' annacquato o (auto)censurato, ha sempre avuto una sua nobiltà e spesso grandi autori e interpreti. Ciò che conta è sempre il risultato. E far ridere è molto più difficile che far piangere. L'importante è non far piangere provando a far ridere.

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