mercoledì 28 giugno 2017

FAZIO FA AUDIENCE E RESTA IN RAI, GILETTI PURE MA LO CACCIANO (TROVA LE DIFFERENZE)

«La Tv abbassa» - Fazio e Giletti, trova le differenze.
Dopo i suoi avvertimenti e il suo pianto dirotto mediatico durato settimane, Fabio Fazio (che, come scrissi in tempi non sospetti, non ha mai avuto nessuna reale intenzione di andarsene) viene riconfermato nell'accogliente Viale Mazzini. 11,2 milioni di euro in quattro anni, ma «è il mercato, bellezza», e il conduttore rende più di quel che costa. Giusto. Non facciamo sempre i populisti.
Pur di trattenerlo, il Presidente Monica Maggioni (che forse a questo punto dovrebbe dimettersi) ha sostenuto che fosse importante derogare al tetto dei 240 mila euro annui previsto per legge in quanto imminente la firma del conduttore per La7. Ieri sera Enrico Mentana l'ha sbugiardata in diretta durante il suo Tg: «Non è vero, Fazio non sarebbe venuto qui. Non c'è mai stata neppure alcuna bozza di accordo scritto. Lo diciamo formalmente e in qualche modo ufficialmente».


Fabio Fazio
Contemporaneamente, anche Massimo Giletti è in ambasce: anche lui con «L'Arena» la domenica su Raiuno faceva ottimi ascolti (anche lui andrebbe confermato e pagato bene. Giusto, è il mercato, non facciamo sempre i populisti), solo che lui non frigna più di tanto, e al giornalista il contratto non viene rinnovato. Sta trattando, rivela il settimanale Oggi, con Mediaset e La7.
Il candidato ha cinque minuti di tempo per trovare le diffenze fra Fazio (che rimane a Viale Mazzini) e Giletti, che se ne deve andare.


Massimo Giletti
Provo a dare la soluzione: lo scioglilingua-munito Fazio è talmente introdotto politicamente in area renziana che pur di trattenerlo, per giunta al prezzo da lui richiesto, non un euro di meno, anche i direttori generali fanno dichiarazioni a braccio (per usare un eufemismo), insieme con artisti della scuderia del suo potente manager Beppe Caschetto. E lui si salva. Giletti, invece, che fa il giornalista, che potrà essere più o meno simpatico e che comunque ogni tanto fa il suo dovere sollevando qualche vespaio, portando a galla casi di cronaca e d'attualità, ne fa le spese. Due pesi e due misure. Così è, se vi pare (e se non vi pare è lo stesso), la Rai Matteo Renzi


martedì 27 giugno 2017

ADDIO PAOLO LIMITI, L'UOMO DEGLI ANEDDOTI (ED ECCOVI I MIEI SU DI LUI)

Paolo Limiti.
Conobbi Paolo Limiti (che se n'è appena andato a Milano per un tumore a 77 anni) mezza vita fa, durante il mio percorso professionale a «il Giornale» di Feltri. La caposervizio di allora, Elena Mantaut, mi commissionò un servizio molto difficile (forse ispiratole da qualcuno a Mediaset, e il diretto interessato tempo dopo mi confidò di essere riuscito a scoprire da chi) per verificare se ci fossero errori nell'Enciclopedia della Tv di Aldo Grasso. Come fare in breve tempo un servizio sui potenziali epic-fail contenuti nell'enciclopedia del primo (il migliore e il più quotato) critico televisivo Italiano, verificandoli con accuratezza, se non andando a sentire gli artisti stessi citati nel libro?
Avevo 20 giorni di tempo: iniziò il mio calvario di telefonate alle più note star della televisione italiana. Leggevo la scheda biografica loro dedicata nell'Enciclopedia, e loro mi segnalavano punto per punto errori, sviste, cantonate od omissioni. La maggior parte dei personaggi, diciamolo, era felice. Essendo Grasso il migliore e il più sferzante, era anche cordialmente detestato da molti. Alcuni, persino insospettabili, non farò i nomi, gongolavano. Ed erano generosi di segnalazioni. Anzi, aggiungevano: «Prova a sentire il tale, che ne avrà da dirti».


Paolo Limiti e Franco Bagnasco nella casa milanese del conduttore.
Tra questi notai una particolare sensibilità al problema proprio da parte di Limiti, l'uomo della Tv degli "anta" e oltre. Colui che sedeva sul «trono over», si direbbe oggi, dell'aneddotica televisiva. Tra lui e Grasso era chiaro che non corresse buon sangue. E Paolino, quando voleva (quasi sempre, a dire il vero) era una piccola serpe. Tra battute al veleno e ficcanti dietro le quinte su questo e quell'altra, ti faceva morire dal ridere.
Il pezzo alla fine uscì, con grande clamore, un'intera pagina ricca di chicche e la sagoma di un Pinocchio che richiamava le «bugie» dell'Enciclopedia. Grasso si chiamò un po' fuori dicendomi che ovviamente non aveva fatto tutto il lavoro da solo, non sarebbe stato possibile, che molte schede erano state preparate da alcuni suoi collaboratori, ma tant'era. E si assunse comunque con correttezza le sue responsabilità.
Da allora però quella pagina di Giornale diventò non solo il mio orgoglio per lo scoop, ma anche il mio tormento. Appena Grasso recensiva (criticandolo) il nuovo programma di Limiti, Paolo sventolava in diretta la pagina richiamandosi agli errori dell'Enciclopedia. Insomma, non se ne usciva.

Autore di qualche pezzo per Mina (ogni tanto le dedicava uno speciale fatto a modo suo, ma pare che la Divina non gradisse), coltivatore diretto di storie da backstage, che ricavava dal suo sterminato archivio personale e da una formidabile memoria, Limiti è stato per il pubblico agée della televisione pomeridiana ciò che anni prima fu Cristina D'Avena per quello dei bambini. Un monumento. Zampettava sul trash con la grazia di Fred Astaire, senza neppure farlo sembrare tale. Dietro le quinte lavorava il suo autore, Paolo Martini, che come il Cardinale Richelieu teneva anche i fili di tutta la diplomazia da alte e medie sfere Rai non particolarmente amata da Paolo. Un lavoro necessario in Italia ma non gradito dall'uomo che amava invece assai i riflettori e che patì molto quando anni dopo uscì dal giro.
Un giorno, quando trapelò la notizia del suo matrimonio con Justine Mattera, la bella sosia di Marilyn dalla quale fu conquistato e che coinvolse subito nei suoi progetti in video, andai a intervistarlo. «Paolo» gli dissi. «Lo sai che ti diranno che queste in realtà sono nozze di copertura perché nell'ambiente corre voce che tu sia gay?».
«Eh, capirai che mi frega!» disse lui lapidario con un'alzata di spalle, affilando l'occhiolino furbetto che tirava fuori nelle grandi occasioni.

lunedì 26 giugno 2017

CASO VITALI * MI HANNO PROPOSTO DI GIRARE UN DOCU-FILM SUL MOBBING

Franco Bagnasco
Buone notizie. In questi giorni, oltre alla solidarietà di tanti lettori, amici, colleghi, e gente di spettacolo, ho ricevuto il messaggio di un regista che sta girando un docu-film sull'inferno del mobbing
È rimasto molto colpito leggendo quella umiliante frase («Bagnasco, parlandone da vivo») rivoltami in redazione da Aldo

Aldo Vitali, Tv Sorrisi e canzoni e Il Mio Papa (Mondadori)
Vitali, direttore di «TV Sorrisi e Canzoni» e «Il mio Papa» e vorrebbe che raccontassi in questo suo lavoro che cosa ho provato durante la mia lunga esperienza lavorativa con questo signore che dirige testate così importanti e rispettabili e conoscere meglio le sue modalità operative.

Che cosa faccio, mi do al cinema
?

Qui sotto, il video tratto dal canale Youtube di Cristina Rossi, che ha deciso di raccontare e commentare la mia storia riprendendo la prima lettera aperta che inviai al signor Vitali.


venerdì 16 giugno 2017

QUANDO ALDO VITALI DAVANTI A TUTTI DISSE DI ME: «BAGNASCO, PARLANDONE DA VIVO»

Aldo Vitali, direttore di «Tv Sorrisi e canzoni» e «Il Mio Papa».
«Bagnasco, parlandone da vivo»
Credo di avere iniziato a stare male, di un disagio all'epoca solo strisciante e difficilmente descrivibile (poi è andata sempre peggio), una mattina di qualche anno fa, quando quella frase mi entrò sibilando nelle orecchie, pronunciata dal direttore del mio (ex) giornale, «Tv Sorrisi e canzoni». Ovvero Aldo Vitali, l'uomo che dirige anche il «Il mio Papa».
Eravamo tutti in una stanzetta al secondo piano del Palazzo Niemeyer a Segrate, che all'epoca veniva utilizzata per le riunioni di redazione. Un'occhiata al numero appena uscito e ai servizi e alle assegnazioni per quello successivo. All'improvviso il direttore, durante il suo lungo monologo, si girò verso di me, mi guardò sogghignando, e tirandomi in ballo totalmente a freddo disse, come fosse un inciso: «Bagnasco, parlandone da vivo», e poi proseguì il suo discorso.


Bang! Accusai il colpo. Forte, secco, implacabile, per giunta davanti a tutti i miei colleghi, ma per orgoglio non dovevo, anzi non potevo darlo troppo a vedere. Non sapendo come reagire, in pochi istanti, abbozzai a denti stretti un laconico: «Molto divertente». Ma intanto, dentro, vivevo un mix fra devastazione e voglia pulsante di reagire nell'impossibilità di farlo. Perché è questo il problema in situazioni simili: rispondendo a tono si rischia paradossalmente di passare dalla parte del torto. E devi tenerti tutto dentro, irrimediabilmente dentro. E alla lunga fa molto male.

Per fortuna, essendo dotato di un buon autocontrollo che mi è sempre stato di grandissimo aiuto in questi ultimi anni professionalmente e umanamente così difficili nei rapporti col signor Vitali, sono rimasto in silenzio, muto e rassegnato, ancora una volta. 
Poi, dallo strapuntone sul quale ero appollaiato insieme con altri colleghi, ho poggiato la testa al muro iniziando a guardarmi in giro, intontito. Quel che provai, per darvi un'idea più precisa, è come quando nei film esplode la bomba gigante vicino al protagonista, che si salva, ma quella forte esplosione, fra polvere e calcinacci che volano, lo scaraventa a terra rendendolo sordo per un po'. Cerco gli occhi di qualcuno. Proprio davanti a me, al tavolo, c'è il vicedirettore Bice Colarossi, sempre molto allineata sulle posizioni di Vitali, ma volge lo sguardo in basso. Mi piace pensare (ma magari sbaglio) che persino lei abbia trovato infelice quell'uscita. Altre facce, altri occhi. Quasi tutti puntano a terra, di lato, altrove, fintamente distratti o imbarazzati. C'è invece lo sguardo amaro di una collega saggia che da tempo mi ripeteva costantemente: «Perché ti sbatti sempre così tanto, quando poi ti trattano così?». E quello sguardo sembrava dirmi, netto e severo: Lo vedi? Ben ti sta.


Intanto, quel «Bagnasco, parlandone da vivo» mi martellava in testa senza tregua. Credo di non avere mai subito una pubblica umiliazione simile in vita mia. Ovviamente non ho sentito il resto della riunione. Sono rimasto lì come un tonno, avvolto nei miei pensieri e nelle domande. Perché qualcosa di così gratuito e mortificante? Perché la mia dignità doveva finire calpestata sul tavolo di una riunione? Perché arrivare a tanto? Perché l'uomo che è indiscutibilmente, in quanto Direttore del tuo giornale, il totale artefice del tuo destino professionale, ti sbatte in faccia ridacchiando la tua morte professionale? Provavo amarezza, un senso di nausea e disgusto che non mi hanno mai più abbandonato da allora. Complimenti davvero. Forse a qualcuno deve dare tanta potente euforia comportarsi così. E istintivamente, per uscire dal loop mentale, anche se non c'era proprio niente da ridere, ripensavo alla famosa gag di un film di Aldo, Giovanni e Giacomo, quando Giovanni gioca a braccio di ferro con un bambino di manco cinque anni, ovviamente lo batte, e poi scoppia in un'irrefrenabile, incontenibile gioia tipica dei veri trionfi agonistici. Forse questo signore davanti a me ora si sente così, pensai. Felice di poco. Tante volte l'ho visto felice di poco. E non importa se lì davanti c'è uno con la lettera scarlatta addosso (che non si è certo dipinto da solo) al quale ha appena gradevolmente ricordato che è un morto che cammina.

«Bagnasco, parlandone da vivo». Il tutto dopo 24 anni di immacolata carriera, senza una querela e con un nome e una rispettabilità nell'ambiente e fra i lettori guadagnati sul campo, sudando, con il rispetto assoluto (sia chiaro, doveroso) dei virgolettati di chiunque e della dignità e dei principi del mio mestiere, scrivendo con passione e leggerezza per i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi. Sei anni al «Giornale» di Paolo. Diciotto nella Mondadori di Marina. Sempre occupandomi (tranne che negli ultimi anni, come da pubblica certificazione di cui sopra) dei servizi più importanti e delicati dello spettacolo, core-business dell'impero berlusconiano. E poi spunta un signore, un signore che in redazione può fare di te ciò che vuole, che una mattina davanti a tutti i colleghi ti butta lì felice un: «Bagnasco, parlandone da vivo». La gratitudine, lo so, non è di questo mondo, eppure (lo ricordo bene per averlo visto più volte con i miei occhi) è sempre stata un piacevole, signorile valore aggiunto del lavoro alle dipendenze delle aziende della famiglia Berlusconi. Qualora le cose fossero cambiate, un povero cristo si sarebbe accontentato almeno del rispetto. Quello basico, essenziale, l'entry level; buona norma in tutte le comunità civili. Invece, «Bagnasco, parlandone da vivo».


Bice Colarossi, Aldo Vitali e Papa Francesco.

Questo è solo un piccolo episodio - però grandissimo per me, visto che, stanti le mie condizioni di salute, non riesco davvero più a differire l'urgenza di raccontare almeno una scheggia della verità e dei fatti - ma piccolo in assoluto, rispetto alla complessità della vicenda che mi riguarda, che tocca anche punti ben più delicati inerenti l'essenza stessa dell'esercizio della professione giornalistica e alcuni principi costituzionali. Come forse avrete letto da qualche parte, se ne sta occupando l'Ordine dei Giornalisti, che ha aperto un procedimento per mobbing contro Aldo Vitali per l'attività ai miei danni. Ancora una volta, come ho sempre fatto, non entro nel merito della questione solo per non coinvolgere la mia Azienda, che in tanti anni ho sempre fatto di tutto per tutelare.

Mi piace ricordare, infine (perché in qualche modo sono strettamente legati), un altro episodio redazionale emblematico molto più recente, avvenuto poco prima che entrassi in malattia. Stavamo chiacchierando insieme con il caporedattore centrale Alex Adami, figura chiave di Sorrisi, e altre tre persone. A un certo punto Adami parla di me e mi tratteggia con questa frase: «Bagnasco è come la muffa: puoi provare a mandarla via, ma alla fine torna sempre fuori». Sgradevole, direte voi. Sgradevolissima. Cinica. Vero. Molto vero. In fondo perché uno deve sentirsi definire così?
Eppure io, quando Alex l'ha pronunciata, mi sono illuminato e, nell'amarezza complessiva, ero quasi felice; sapete perché? Perché sono sicuro che il collega, che è persona intelligente, competente, credibile, e che mi ha sempre dimostrato, anche pubblicamente, stima, correttezza e vicinanza nel tunnel di questi ultimi anni, stava descrivendo con una straordinaria metafora, meglio dell'intero ricorso del migliore degli studi legali, la mia situazione all'interno del giornale negli ultimi anni. Un giornale che non era certo lui a dirigere. Non era lui a provare a togliere quella «muffa» (chissà perché) così sgradevole a vedersi ma sino a qualche anno prima così richiesta, così pregiata, così ambita. 
Aldo Vitali e Raoul Bova.

Adami con quel colpo di genio sottintendeva (con una sintesi mirabile e inequivocabile, se sbaglio il collega mi corregga ma sarebbe grave se fosse altrimenti) la straordinaria resistenza umana e professionale di un giornalista che fa il suo dovere sempre e comunque e che non affoga ma alla fine riesce sempre a riemergere nonostante debba nuotare in una situazione ambientale avversa, da lui fotografata con grande lucidità. E così io, quella macchia di muffa che si prova ostinatamente a mandare via ma che alla fine torna sempre fuori (quasi sempre, purtroppo, visti gli eventi), l'ho fatta diventare da quel giorno la più grande medaglia da appuntarmi al petto. Senza contare che dalla muffa in fondo si ricava la penicillina, e non è poca cosa. La penicillina serve parecchio anche nell'editoria, credetemi.


Ammaccato, sempre più provato, insonne, straniato, ansioso, depresso, amareggiato oltre ogni limite, ma «Sono ancora qua», per dirla con Vasco. Un morto (professionale) vivente che barcolla con una macchia di muffa a forma di medaglia appuntata sulla maglietta bianca. Bella immagine, vero? L'unica consolazione (ci metto a fatica una punta di ironia, sennò non sarei io) è che gli zombie oggi sono assai trendy e, come il nero, vanno con tutto
Un grazie infinito, sempre e comunque, a tutti coloro che continuano a manifestarmi concretamente la loro vicinanza, capendo, condividendo e solidarizzando. Perché questa è senza dubbio - sino a oggi - la prova più difficile della mia vita. Sono un nano (non quello di Flavio Insinna, anche se avrei preferito di gran lunga sentirmi dare del nano davanti ai miei colleghi, che non il resto) tra i giganti e la mia unica forza siete voi che leggete. Vi voglio bene.
Franco Bagnasco

giovedì 15 giugno 2017

CON GLI OPERATORI DEI CALL CENTER (NON TUTTI) MI PIACE COLTIVARE UN RAPPORTO PARITARIO

Alcuni operatori di call center.
Con gli operatori dei call center (non tutti, i più intelligenti) mi piace coltivare un rapporto paritario: tu rompi le balle a me, io le rompo a te. In un'armonia che ci avvicina al creato.
Ieri sera mi ha chiamato un tipo di Sky, cordiale ed educato, quindi abbiamo instaurato un dialogo costruttivo.

Lui voleva vendermi l'opzione HD a 6 euro al mese. Io gli ho spiegato che «Non mi serve, al momento: ho un Sony Bravia 40 pollici un po' datato e con l'audio vagamente gracchiante da una cassa. Aspetto che si fulmini (plop!) e poi vedremo quando comprerò il modello nuovo più performante».

In compenso mi sono lamentato del fatto:

1) Che pur avendo un pacchetto che comprende le serie tv io per vedere le stagioni complete sia teoricamente costretto a pagare un extra di 5 euro (che non pago per principio) per i Box Sets. Furbata commerciale che comprendo, ma che non mi pare corretta. Netflix a 8 euro al mese ti dà tutto ed è sempre a disposizione. Su alcuni titoli e primizie poi si può ragionare, certo.

2) Che il pur comodissimo SkyGo sia bloccato all'estero. L'app di Netflix invece è apertissima anche fuori dai confini italiani senza paranoie sui diritti; questione che non deve toccare l'utente. Cosa che andrebbe risolta.

3) Che non condivido in toto la logica della esasperata parcellizzazione dei pacchetti, che secondo me prima o poi li penalizzerà, se non lo sta già facendo. Può essere giusto dividere per generi, ma poi non si può applicare un balzello per ogni minima aggiuntina. Sembrano quelle auto dove ti danno la carrozzeria e le ruote, e poi se vuoi tutto il resto, aggiungi pezzo per pezzo fino a far lievitare di parecchio il prezzo.

4) Che anche l'HD non mi pare debba rientrare fra gli extra.


Mi ha gratificato dicendo di aver preso nota di tutto (in fondo non costa niente far felice un bambino, anche se non è vero) e per uscirne mi ha regalato 15 giorni di pacchetto Cinema che avevo disdettato tempo fa e che nel frattempo (è vero) è un po' migliorato come offerta.
Peccato che la telefonata sia finita così presto, sennò sono sicuro che gli avrei venduto anche una batteria di pentole da cucina.

martedì 13 giugno 2017

PAVIA * AFFITTARE L'APPARTAMENTO A UNA BELGA CHE DA' IN ESCANDESCENZE

Pavia. Piazza Ghislieri vista dal «Pavia Downtown Apartment».
Mia madre, da sempre generatore seriale e casuale di ansie assortite (quando non ne ha di proprie si premura di occuparsi con dovizia anche di quelle altrui, a volte procurandone con ostinazione l'insorgenza), affitta da un paio d'anni su Booking il suo bell'appartamento di Pavia. 95 metri quadrati nella centralissima Piazza Ghislieri. Marilena accoglie i clienti arrivando in bus dal paese, fa le pulizie insieme con una brava signora dell'Est che le dà una mano, e si occupa di tutto. Io l'aiuto solo per eventuali emergenze e seguo la piattaforma on-line tenendo i contatti con gente che arriva veramente da tutto il mondo. L'imprenditrice individuale è soddisfatta perché ha rispolverato il dizionario d'inglese e soprattutto perché c'è un bel viavai, ma fra commissioni (Booking si ciuccia il 18%) e tasse le resta in mano se va bene la metà dell'introito. Storia nota in questo Paese sanguisuga.

La particolare natura ansiogena della genitrice (ben nota a livello familiare per questo vezzo che ci tiene davvero tanta compagnia) fa sì che ogni suo gridare al lupo sia sempre ridimensionato e valutato in scala 1-10 non oltre il 2. Spesso anche meno.
Ieri pomeriggio aspettava una coppia dal Belgio. Prenotazione per 2 persone, tre notti, arrivo fra le 16 e le 17. Pagamento già effettuato sul web con carta di credito. Sembrava tutto a posto.

Alle 16.40 mi squilla il cellulare. Madre è in fase di concitazione acuta: «Non ci siamo! No no no, qui non ci siamo! Senti, parlaci tu con questa: io volevo farle capire di separare i rifiuti per genere invece di buttare tutto insieme giù in cortile, oppure di lasciarli in un sacchetto sul terrazzo che poi ci penso io, perché non voglio far arrabbiare il condominio e prendere multe, ma non ne vuole sapere». Me la passa. La signora parla un buon inglese ma, già al primo tassello (alle persone bisogna sempre fare il tassello), pare acida come uno yogurt scaduto da un mese. Non vuole separare i rifiuti, pare che la cosa non la riguardi o non gliene importi, e non vuole neppure lasciarli sul terrazzo prima di andare via. Non mi scompongo (il cliente va trattato bene perché poi lascia il feedback, fondamentale, e qui c'è già forte puzza di rognosetta dal voto basso) e do istintivamente la colpa a Madre. Conoscendola, chissà che testa ha fatto a questi con la storia della separazione dei rifiuti. Arrivare stanchi dopo un viaggio e, oltre a tutta la burocrazia, beccarsi mezz'ora di speech in anglo-pavese su compostaggio e riciclaggio, non è il massimo. Dico alla belga uterina di non preoccuparsi e di buttare tutto assieme nel saccone condominiale in cortile. Amen. Mi ripassa Madre e le spiego gli accordi. Madre è ancora in fermento, cerco di placarla. Stiamo per congedarci quando sommessamente, fantozzianamente, mi butta lì, quasi bisbigliando: «Poi fossero in due come da prenotazione, invece...». Mi si accende la spia rossa. «Perché, scusa, quanti sono?». «Beh, marito e moglie, più la baby-sitter e due bambini piccoli». Alzo gli occhi al cielo in silenzio sperando di intercettare la benevolenza di alcune divinità. Cinque.

Il problema fondamentale per mia madre non era che da una prenotazione per 2 persone (con un appartamento che ha capienza massima dichiarata di 4, e un costo d'affitto che è proporzionale al numero degli occupanti) se ne fossero presentate 5 senza né avvisare né chiedere di pagare la differenza. Il problema per lei era soprattutto come spiegare la corretta separazione dei rifiuti. Poi sì, in effetti, c'era anche questa cosa che da 2 sono arrivati in 5, ma tutto sommato forse era un di cui.

Mi faccio ripassare la belga, e stavolta, incurante del feedback, ho io il coltello dalla parte del manico. Faccio rilevare alla tipa la sua scorrettezza e subito s'inalbera, alza la voce, dice che i bambini sono molto piccoli e non dovrebbero manco pagare. Non è vero: dipende dalle regole che tu imposti. Alcuni alberghi o appartamenti li accettano, altri non li accettano. Per alcuni sono gratis se davvero piccoli, per altri (come quello di mia madre) sono accettati ma pagano come normali ospiti. Il ciclone belga mi dice sostanzialmente di non rompere troppo le scatole che ha da fare, e di dirle quanto voglio come differenza per la baby-sitter. «Guardi» le faccio con un veloce calcolo a spanne «lasciamo stare i bambini, dia 200 euro in più a mia madre, mi sembra congro, e la chiudiamo qui». Mi risponde che è impossibile, che le sto chiedendo qualcosa di «illegale». «Controlli su Booking», ribatto cercando di mantenere la calma. E come molti sapranno non è un bel periodo per il mio sistema nervoso già tanto tanto tanto provato da altri incresciosi eventi. Mi risponde di aver controllato e che al massimo a mia madre dà «60 euro in più per la baby-sitter». Non ci sto, mantengo la calma e chiamo il salomonico Booking per sistemare la cosa.

Questa tizia, tutti lì attorno se ne rendono conto, sia dai modi che dai toni, è visibilmente fuori come un balcone fiorito a primavera. Una incontenibile virago esauritissima alla quale la Franzoni spiccia casa. L'incolpevole marito, 50 sfumature di niente (ma chi te lo fa fare, fratello?), sta zitto in un cantuccio. I bambini stanno già aprendo tutti gli armadietti di casa estraendo oggetti a piacere. La baby-sitter, muta per contratto, guarda mia madre con occhi imploranti pietà e ogni tanto scuote il capo come a dire: «Non ci faccia caso, la prego, questa non c'è con la testa». Insomma, finalmente un quadretto di emergenza vera. Marilena aveva visto giusto. Impariamo a gridare al lupo quando il lupo c'è davvero, raga!

Parlo con l'operatore di Booking addetto a risolvere emergenze come questa, dicendomi anche pronto eventualmente a mandare via tutta la comitiva senza troppi complimenti. Me lo sconsiglia, per evitare altre possibili complicazioni legate alla ricollocazione, e sentenzia: «La signora, in base ai vostri prezzi, dovrebbe pagare 267 euro in più, non badando alla capienza superata. Se lei le ha già proposto di chiudere la cosa a 200 dovrà accettare, altrimenti se possibile addebiteremo 267 euro sulla sua carta di credito. Se non sarà possibile e non accetterà, i signori dovranno andarsene. Comunque mi dia il numero, la chiamo io».
Nel frattempo mi risquilla il fisso di casa: è Madre con tono da semi-infartata che mi passa la belga inferocita: «Senta» mi dice «faccia come vuole, ho pagato e questa adesso è casa mia! Sono qui ostaggio di sua madre che non se ne va. Stasera ho un convegno in Università, non mi faccia perdere altro tempo. Dica a Booking di farmi caricare sulla carta di credito l'importo che devo pagare, tanto me li rimborsano, ma non sono soddisfatta». Mi appello a Odino e le sibilo: «Lei non è ostaggio di nessuno! Ma questa cosa va risolta. Ora la chiameranno da Booking».
Niente resterà impunito.

La storia è finita (giuro, neanche nei film) che la pazza ha dato 200 euro in contanti a Marilena e se li è fatti dare (tenetevi forte) dalla baby-sitter, perché non li aveva! Del resto signori si nasce.
Marilena le ha rilasciato regolare ricevuta, ha stretto la mano a ciò che resta del marito e alla baby-sitter, sempre più mortificata, e uscendo ha lanciato un saluto anche alla belga spanata tenutaria di conferenze. La tizia era in bagno e non si è degnata di rispondere.
Madre, in un sussulto d'orgoglio, in perfetto italiano, richiudendo la porta: «Ah, e non saluta neanche... Complimenti!».


domenica 11 giugno 2017

FINIRO' PER COMPRARE SU AMAZON ANCHE L'ANGURIA

L'anguria, il frutto dell'estate
Ho una passionaccia mai sopita per l'anguria. Potrei mangiarne una intera gigante, da 13 chili, in un giorno, senza fare una piega (sul momento) per morire poi fra atroci patimenti. Felice di farlo dopo l'estasi.
Sulla statale appena fuori Milano, sulla sinistra, dirigendosi verso Pavia, più o meno all'altezza di Rozzano, c'è la storica maxi bancarella di un ciliegiaio-anguriaio che guardo sempre con la brama antica del vampiro che intravede un succulento collo libero.
L'altro giorno il ben di Dio intrigava particolarmente, mi sono fermato e ho chiesto il prezzo: «Un euro al chilo l'anguria intera, un euro e mezzo quella tagliata», dice il tipo. In pratica, si pagano cinquanta centesimi in più per ridurre i rischi. Se la porti via intera puoi arrivare a casa e trovare la fregatura. Se ne prendi due mezze già tagliate, le vedi dentro e vai più sul sicuro. Mi sembrava tutto molto caro, quindi ci siamo accordati per due metà già tagliate pagate un euro al chilo. Cosa più onesta. Giusto per dire quali sono le nuove frontiere del commercio, bellezza. Finirò col comprare su Amazon anche l'anguria. Tra l'altro con Prime nelle grandi città consegnano in giornata.

venerdì 9 giugno 2017

GIANNI MORANDI (IL GATTOPARDO) E GIGI D'ALESSIO (PREZZEMOLO), PERCHÈ LO FATE?

La Tv abbassa, di Franco Bagnasco - Morandi e D'Alessio, perché lo fate?
Il calderone del generalismo musicale e televisivo fa sì che si cucini una zuppa pop dai tanti sapori. Mescolarli a volte è un bene, a volte no. Riflettevo su questo pensando alla recentissima, in parte criticata, esibizione di Gianni Morandi e Fabio Rovazzi a Verona sul palco dei Wind Music Awards con «Volare», singolo usa e getta che si fa notare soprattutto per il gran dispiego di mezzi in un bel video che l'accompagna. Ma che se esce da quella artefatta dimensione rivela tutta la sua fragilità.
Morandi, che conosco da una vita, è attentissimo gestore della propria immagine, noto nell'ambiente per auto-generare dubbi a profusione prima di accettare qualsiasi progetto. Se ha accettato la proposta del pischello canzonettaro del momento, tra una foto e l'altra piazzata strategicamente sul suo Facebook, significa che ci ha pensato non una ma mille volte. Il risultato, va da sé, non è lo stesso che ottenne nel 2003 mixando se stesso a Elio e le Storie Tese in «Fossi figo». Là erano vette irraggiungibili; questa una cosetta. Però se Gianni l'ha fatto, credo, è solo per la gattopardesca voglia che ha di cambiare tutto perché nulla cambi. Di spolverarsi ogni tanto di ironica modernità con la performance che non ti aspetti. Il che forse fa bene all'immagine più di un selfie (negato) a Giancarlo Magalli.
Gigi D'Alessio in «Made in Sud»


Gianni Morandi e Fabio Rovazzi
L'altro che mi ha lasciato perplesso, di recente, è Gigi D'Alessio, che dopo la mazzata a Sanremo ha accettato (ma la cosa era già stata decisa) di co-condurre «Made in Sud», conclusosi la scorsa settimana su Raidue. Gigi, d'accordo che sei di Napoli e il programma va in onda dall'Auditorium, ma tu sei una colonna della canzonetta melodica italo-partenopea. Perché prestarti a un progetto che non è cosa tua? Che ti vede in scena visibilmente fuori posto, fra battutari che fanno rivalutare «Colorado» e le due bellone che presentano davvero la trasmissione? Non a caso il D'Alessio che il pubblico ama tornava fuori prepotente solo al momento della canzone di rito. Dammi retta, Gigggi, lascia perdere il cabaret e la conduzione. Non diventare un prezzemolino tv. Farà bene al tuo conto corrente, ma alla lunga non fa bene a te.


mercoledì 7 giugno 2017

QUELLI CHE SU FACEBOOK SI AUTODEFINISCONO («IL FOTOGRAFO DEI VIP»)

Ogni tanto mi capita di imbattermi nel profilo Facebook di quelli che, accanto al nome, si autodefiniscono. Comprendo, in un mondo che spesso spersonalizza, la necessità di trovare una collocazione, magari anche professionale. Ma a volte si diventa ridicoli. Ieri ho letto (il nome è di fantasia): «Mario Rossi fotografo dei Vip». E mi è venuto molto da ridere. Primo perché mi piacerebbe sapere a quali Vip si riferisca. Oggi il panorama è talmente scialbo, che magari questo tizio considera Vip qualche tronista o avanzi del «Grande Fratello». Niente di più facile. 

Poi perché me lo vedo, il «fotografo dei Vip», che la domenica corre nel paesino sperduto, a fare il matrimonio di Concetta Picchiazzi e Antonino Scialla, oggi sposi, che chiamano il fotografo dei Vip per sentirsi un po' Vip anche loro. Con gli invitati Vip che chiedono al fotografo dei Vip di raccontargli di quella volta memorabile in cui aveva fotografato Alessia Merz. E lui che fa: «Eh, sapeste... Ne avrei da raccontare». E che bella torta Vip, tra flute di prosecco Vip e quell'arietta Vip che si sparge tutto attorno, nella tenuta Vip affittata per il banchetto. Peccato ci abbia già pensato Mengacci, sennò sarebbe un programma.

martedì 6 giugno 2017

AMAZON PRIME VIDEO * «AMERICAN GODS» E «GOLIATH», SE VUOI ACCENDERE IL MISTERO

Ian McShane in «American Gods» (Amazon Prime Video)
Per contrastare lo strapotere di Netflix e Sky e scippare loro quote di mercato nel mondo delle serie tv e dintorni, anche Amazon spara le sue cartucce; e c'è materiale di pregio. Lo fa nella sua piattaforma Amazon Prime Video, accessibile dal web agli utenti Amazon che hanno sottoscritto l'opzione Prime (20 euro l'anno per un carnet di contenuti più che dignitoso, che fra parentesi molti non sanno neppure di avere a disposizione), cioè quella che dà diritto alle spese di spedizione gratuite e alla consegna veloce dei prodotti.
Tra le chicche tecnologiche, si può attivare una funzione da cultori che segnala con una fotina i nomi di personaggi e interpreti presenti in ogni scena. Si aggiorna continuamente, per non lasciare mai nel dubbio lo spettatore. Basta muovere il mouse.

Il logo di «American Gods».
LE FOLLIE DI «AMERICAN GODS»
Difficile da definire, la prima stagione di «American Gods» è tutto e il suo contrario. C'è del fantasy truculento, ci sono antiche leggende, morti che resuscitano, umorismo nero, splatter stile «300», abbondanti echi tarantiniani. Insomma, tanta roba. Basta non farsi troppe domande e lasciarsi trasportare dal racconto. Il protagonista è un ragazzone mulatto (Ricky Wittle, più forte a bicipiti che a recitazione), che, alla faccia di Totò Riina, esce di prigione tre giorni prima del dovuto dopo la morte della moglie. E viene assunto come body guard da uno strano personaggio (l'enigmatico Ian McShane) in conflitto con dei e creature poco raccomandabili. 

Billy Bob Thornton in «Goliath»
IL NOIR ECCELSO DI «GOLIATH»
L'altra primizia è «Goliath», con quel diavolo di Billy Bob Thornton, avvocato mezzo alcolizzato tagliato fuori dal suo vecchio studio, che con pochi mezzi accetta la causa legata al presunto suicidio del dipendente di una potente società che produce armi. Un noir che sembra partire un po' incerto, ma che decolla quasi subito, grazie alle indagini, ai contrasti fra le tante figure femminili (ottimo cast) e alla mai sopita conflittualità tra Billy e lo sfregiato William Hurt, ex socio ed ex amico (ora acerrimo nemico) di Thornton. Misterioso avvocatone che vive nell'ombra di un attico.

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