giovedì 20 dicembre 2012

21/12/2012 * LETTERA APERTA AI MAYA

Cari Maya,
premetto che non vi conosco, se non per sentito dire. Sono stato in Messico una volta, e l’unica profezia che mi ha colpito nel profondo è stata la nota (forse più nota di voi) maledizione di Montezuma. Una vacanza passata sul water, si sa, è peggio dell’Armageddon.
Però complimenti, davvero: avete un ufficio stampa che neanche Lady Gaga, se siete riusciti a far circolare massivamente per almeno un anno - ovunque - una bufala planetaria. Vi confesso che un po’ mi fate simpatia, come tutti i testardi autolesionisti che si imbarcano in imprese più grandi di loro. Anche se è d’obbligo mettervi in guardia dalle figuracce, perché dopo aver montato la panna per mesi e mesi, se poi non succederà nulla, vi sarete giocati la credibilità per le prossime generazioni. Può non essere vitale per chi lavora nel ramo del nichilismo, ma fateci un pensiero.
Per il resto, egregi esponenti di una civiltà estinta ma più presente dei neuroni di Flavia Vento, guardatevi in giro. Senza andare lontano: basta questo vecchio Stivale rattoppato. Pieno di ladri, bugiardi, lecchini, troie di regime, giornalisti venduti. Uomini di potere e di partito capaci di pensare solo al proprio interesse e mai a quello della collettività che (teoricamente) dovrebbero rappresentare e servire. Un Paese finito e sfinito. Che la fiducia ormai la trova solo nel Galbani. Stordito dal gossip, schifato dalla corruzione, annientato dal nulla vestito a festa che l’ammanta da troppo tempo, come la neve d’inverno. Chi ha fra i 20 e i 30 anni e – potendo farlo – non stacca un biglietto di sola andata per qualsiasi posto civile, è un pazzo o un parlamentare.
Insomma, stimatissimi Maya, non c’è bisogno di strafare. A noi la Fine del mondo non è così utile. Ci serve solo la fine (più dolorosa e chirurgica possibile) di quest’Italia di merda.

martedì 18 dicembre 2012

ELENA SOFIA RICCI * «MIA SORELLA ELISA È LA VERA ARTISTA DI FAMIGLIA»


Attimi di relax in un luogo speciale per Elena Sofia Ricci, stella di prima grandezza della fiction di casa nostra. Capace di passare dal set de «I Cesaroni» di Canale 5, dov’è tornata nella stagione attualmente in onda per interpretare il ruolo dell’amorevole e (stavolta) un po’ fatale Lucia, a quello di «Che Dio ci aiuti», su Raiuno, dove nel 2013 tornerà a interpretare il ruolo dell’energica suor Angela. Inevitabili, i bilanci. «“I Cesaroni” stanno andando abbastanza bene» dice l’attrice «e a Mediaset sono soddifatti, anche se stavolta c’è qualche problema in più con gli ascolti, che sono però frammentati su ogni rete televisiva. Forse stiamo pagando un po’ il fatto di far interagire meno i ragazzi con gli adulti nello sviluppo del racconto. Ma è un discorso che riguarda soprattutto gli sceneggiatori, chi si occupa della scrittura degli episodi». 
Accanto ad Elena Sofia, per la prima volta, c’è sua sorella Elisa Barucchieri, danzatrice e coreografa con un vistoso curriculum ma poco nota al grosso pubblico. «Ci mostriamo insieme solo ora» prosegue la Ricci «perché il nostro è un rapporto speciale che andava difeso. Qualche giornale in passato ci ha proposto di fare foto modello “sorelline ai fornelli”. Non era roba per noi. Qui siamo al Teatro Valle di Roma, dove si è tenuto “Anima”, il nuovo spettacolo di Elisa, e dove io feci “Il bugiardo” di Goldoni. Un posto che ci accomuna. Siamo figlie dello stesso papà ma abbiamo mamme diverse. Io ho tenuto il nome materno. Di fatto ci siamo conosciute solo 20 anni fa. Elisa è straordinaria, la vera artista di famiglia, insieme con mio marito Stefano, compositore. Loro sono in grado di creare davvero qualcosa, io sono solo un’interprete. Certo, non risponde al telefono, le devo ricordare di andare a fare le visite mediche, è molto distratta. Ma dietro quest’apparenza di donna “sparpagliata”, si nasconde un tesoro».
Interviene Elisa: «Elena Sofia è splendida: onesta, integra, generosa, di una generosità che spesso le si ritorce contro. Difetti? Parla tanto, ma ora un po’ meno. Un momento che ci unisce? Anni fa: eravamo insieme sul lettone mezze addormentate a vedere in tv “Carràmba, che sorpresa!”. A un certo punto passa la storia struggente di due fratelli che non si vedevano da 27 anni. Ci guardiamo negli occhi e scoppiamo a piangere a dirotto: “Ma è la nostra storia...” ripetevamo fra le lacrime abbracciandoci. Una cosa indimenticabile».
La passione per la danza di Elisa ha radici antiche: sin da piccola, cresciuta sulle Dolomiti. 
«Anche se un’insegnante» aggiunge «mi disse che avevo le ossa troppo grosse per ballare. E le credetti. Ma parlava di danza classica. Con la contemporanea, che viaggia su binari molto meno rigidi, si può spaziare molto di più. Ho scelto come base Gioia del Colle, in Puglia, dove ho per due anni la direzione del teatro locale, e la vicina Giovinazzo, dove c’è un altro spazio attrezzato. La mia compagnia si chiama ResExtensa, tra le pochissime al Sud riconosciute dal Ministero, tra le cosiddette Residenze di danza. Con lei e il gruppo Unità C1 ho realizzato “Anima - Il respiro del Mediterraneo”. È stato definito “spettacolo totale”, giocato sul corpo, la luce, il video, la musica, i costumi... C’è chi è tornato tre volte a vederlo e, giuro, non erano parenti! Ma in futuro mi piacerebbe fare qualcosa che coinvolga anche mia sorella e suo marito».
Elena Sofia la guarda con affetto, e annuisce: «In passato Elisa ha lavorato con me occupandosi delle coreografie di un mio spettacolo. Ma ha così tanto talento che può fare e ha fatto di tutto: dall’Erodiade di Testori alle collaborazioni con Carolyn Carlson. Allestisce spettacoli che neanche i Momix. Una volta per uno spettacolo sul lago di Monticchio, in Basilicata, costruì un galleggiante sull’acqua, con fontane di luce. Memorabile».

(TV SORRISI E CANZONI - DICEMBRE 2012)

mercoledì 12 dicembre 2012

IN MORTE DI J.R. * DA 5 BOTTIGLIE DI CHAMPAGNE AL GIORNO, A 5 FRULLATI

La sua filosofia, la sintetizzò in una frase: «Ho sempre trattato tutti allo stesso modo: dalla Regina d’Inghilterra, al lavoratore di fatica di un giacimento petrolifero a Dallas». Morto a 81 anni, il 23 novembre scorso, per le complicazioni di un cancro alla gola, Larry Hagman, per tutti solo «J.R.», di pozzi di petrolio texani se ne intendeva davvero, essendo nato a Fort Worth un lunedì di settembre del 1931, figlio di una cantante di Broadway. Il successo lo acchiappò nel 1965, grazie al ruolo del Maggiore Nelson nella sit-com «Strega per amore», con Barbara Eden. Il botto, però, fu alla fine del decennio successivo, quando dal 1978 al 1991 vestì i panni del cattivo dei cattivi: lo spregevole J.R. di «Dallas». Nel 1980, l’episodio in cui una misteriosa mano attentò alla sua vita, fu seguito da 83 milioni di spettatori in America e da 350 milioni in tutto il mondo. Negli anni d’oro, Mr. Hagman, oltre a bere cinque bottiglie di champagne al giorno, provando «Ogni tipo di droga, tranne l’eroina», guadagnava 100.000 dollari a episodio, e ne girò in totale 353. Il che gli consentì di accumulare una fortuna; tanto da comprarsi una villa a Malibù (Los Angeles) e un sontuoso appartamento proprio a Dallas, che aveva ovviamente ribattezzato «La mia città». La battaglia più grossa la dovette combattere nell’agosto del 1995, quando, dopo aver scoperto un tumore al fegato, subì un trapianto. 13 ore d’intervento. Il donatore era un 28enne che poi campeggiò per tutta la vita in una foto in bianco e nero su una mensola del soggiorno di casa Hagman, e che J.R. ogni giorno salutava e guardava negli occhi; piccola cerimonia di ringraziamento per la «seconda possibilità» che gli fu concessa. Spiritoso, eccentrico e nemico della finzione (una volta si presentò in un negozio di alimentari con un costume giallo da gallina, e un’altra fu sorpreso a giocare a freesbee in spiaggia vestito da karateka), Hagman a casa custodiva strani cimeli. Come un pezzo di carbone della sala macchine del Titanic, regalo di un fan, e una fialetta di sangue infetto da Hiv, che considerava «un’opera d’arte». Così come alcuni quadri dipinti da un amico. Tale Anthony Hopkins. Del suo cancro in gola parlava invece a lungo con un altro malato illustre: Michael Douglas. La domenica invece la consacrava al silenzio assoluto e alla meditazione, spostandosi con un micro-ventilatore a mano per respingere il fumo delle sigarette altrui. Pare sia stato pagato un milione di dollari per tornare a interpretare J.R. nel recente seguito della serie cult, che in Italia non ha avuto grande riscontro. Nell’ultimo anno era diventato totalmente vegano, tanto da trasformare le famose cinque bottiglie di champagne al giorno in cinque frullati di cavolo, cetriolo, fagiolini e avocado. Appassionato di energie alternative e materiali eco-compatibili (spesso girava l’America su una casa viaggiante a energia solare targata «Be Happy», ovvero sii felice, e aveva un caddy per giocare a golf alimentato con olio da cucina riciclato), quando si presentò in Italia l’ultima volta, esattamente due anni fa, a «Sorrisi», ebbi la fortuna di conoscerlo. Era testimonial di un’azienda di pannelli solari, e mi chiese il numero di cellulare di Zucchero, l’artista italiano che amava di più, deciso a complimentarsi per una sua canzone: «È un peccato morir». Sì Larry, è un vero peccato.

(TV SORRISI E CANZONI - DICEMBRE 2012)

martedì 11 dicembre 2012

GRILLO, CASALEGGIO, IL MOVIMENTO 5 STELLE (M5S) E LA DEMOCRAZIA INTERNA


Beppe Grillo ha detto in modo crudo ("Chi non è d'accordo, fuori dalle palle"), ciò che ha sempre professato nei fatti. Lui, Casaleggio e il M5S non sono immuni da difetti né saranno la nostra panacea, ma chiarezza e coerenza espositiva - a volte un po' brutale, ma d'altra parte questo Paese viene brutalizzato da una vita da politici di ogni colore che sono soliti inchiappettarci col sorriso e le menzogne, che cosa sarà mai un "fuori dalle palle"? - non gli è mai mancata. Le anime belle che ora si scandalizzano, o fingono di farlo per motivi propagandistici, per la sua "antidemocraticità", dovrebbero riflettere sul fatto che la Democrazia ha ragione di esistere soprattutto all'esterno, non tanto all'interno di un Movimento. Quando si è seduti tutti assieme sugli scranni a Montecitorio e si fa la conta dei voti su una proposta di legge, non quando si combatte per arrivare a sedersi su quegli scranni. La democrazia interna, quando esistono un leader e un progetto al quale si è data la propria adesione, è un aspetto - passatemi la semplificazione - "secondario". Dialettica, critiche e dissensi non possono arrivare oltre un certo limite per non danneggiare il percorso fatto sin lì. In questo senso, Grillo ha ragione ed è stato più che sincero. Chi non condivide, è libero di andarsene. Mi piacerebbe poter verificare quanti di coloro che si scandalizzano (in modo a mio avviso strumentale, perché il M5S fa molta paura), sarebbero disposti a concedere tranquillamente che altri venissero a comandare a casa loro. Secondo me, nessuno. Li accompagnerebbero alla porta, più o meno garbatamento. La democrazia interna, nei partiti, di fatto non è mai esistita. A meno che non fosse un (inconcludente) collettivo politico sessantottino. Il resto erano aspre lotte fra correnti, alle quali ci hanno abituato Dc e Pci, con qualcuno che poi teneva comunque le fila. Grillo almeno evita il minuetto delle prese per i fondelli dei finto-democratici, e dice chiaro: "Chi non è d'accordo, fuori dalle palle". Non mi pare una bestialità.

CHIARA GALIAZZO * LA BIZZARRA VITA DELLA VINCITRICE ANNUNCIATA DI «X-FACTOR»

«Dai, per favore, sono chiusa qui da settimane, non ci dicono niente: raccontami che cosa ha detto Mina di me!».
È molto difficile resistere al guizzo negli occhi, ai modi naïf e alla cadenza veneta di Chiara Galiazzo, 26 anni da Saonara (Padova), favorita tra i favoriti per la vittoria alla sesta edizione di «X-Factor». È molto difficile, ma devo farlo, dal momento che l’intervista, in camerino, è sorvegliata a vista da un’addetta stampa e da una redattrice. Inflessibili come istitutrici tedesche. Quindi il commento di Mina: «Quest’anno a X-Factor c’è una ragazza pazzesca» (quasi sicuramente riferito al suo talento), lo devo tenere per me. Pena l’espulsione.

Chiara, mi spiace ma non posso dirti niente di quel che succede fuori. Sono le regole del talent…
«Lo so, ma per me è troppo importante, capisci? E poi è stato Morgan stesso a fare un accenno durante una puntata, quindi che male c’è? Mina ha davvero parlato di me? Ha parlato bene?».
Non posso, Chiara, non posso. Piuttosto, sembri un po’ ansiosa sul palco. Dopo qualche settimana di rodaggio, ti è passata la paura?
«Non mi passa mai, non si placa per tutta la settimana. Martedì ho il top del buco nero, nerissimo. La cosa va avanti mercoledì, e poi sparisce giovedì, un secondo prima di iniziare».
È vero che in passato hai fatto l’animatrice?
«Sì, avevo 20 anni, in un villaggio a Grado… Seguivo i bambini. Sono un po’ bambina anch’io».
Poi è arrivata la laurea in Economia, 100 su 110…
«Sai un casino di cose… Quindi, su, è fondamentale: dimmi che cos’ha detto Mina di me! Capisci, se canti e la più grande cantante italiana, il tuo mito, dice qualcosa di te, è importante!».
Capisco, ma non posso. Cantavi anche quando, per sei mesi, hai venduto fondi comuni d’investimento in una società di Milano, prima di entrare a «X-factor», o ti facevano fare solo fotocopie?
«Mannò, lì mica potevo cantare. Ero stagista, non facevo fotocopie ma l’assistente di un trader; però mica c’entravo poi così tanto con quel mondo lì...».
Se ti dico: «Prendi una matita, tutta colorata…». Che cosa mi rispondi?
«Che sei ubriaco?».
No! È il ritornello di una famosa canzone di Mina. Non mi puoi cadere su Mina…
«No! Davvero? Non la conoscevo; osti, che figura… Ma di lei ho cantanto alcune cose soprattutto in passato. Di recente, solo “L’ultima occasione”».
Anche perché ultimamente ti esibivi con un chitarrista, Giuseppe, in alcuni locali di Milano… Perché solo chitarra e voce?
«Perché a me non piacciono troppi sghiribizzi, può bastare così. E poi parliamoci chiaro, è più semplice: non devi portarti altri strumenti».
Ora, dopo essere stata scartata da due edizioni di «Amici», hai in repertorio anche un inedito firmato Eros Ramazzotti…
«È una cosa stupenda, bellissima».
E se domani (e sottolineo se), come direbbe Mina, vincessi «X-Factor», che cosa faresti?
(Prima di rispondere, per farsi perdonare la gaffe di prima, intona tutto l’attacco di “E se domani”, Ndr). «Ringrazierei tutti quelli che hanno lavorato a questo programma, e mi toglierei le scarpe prima di lanciarmi dalla gioia sulla platea».
L’intervista si conclude con Chiara scortata fuori dal camerino che – muta – ogni 30 secondi elude la sorveglienza, spalanca gli occhi, mi fissa e sorride annuendo più volte, in attesa di un mio cenno del capo. Ovviamente a proposito di Mina. Alla fine, lo sventurato rispose.

(TV SORRISI E CANZONI - DICEMBRE 2012)

martedì 4 dicembre 2012

ARISA * «IL MIO ULTIMO X-FACTOR? SI VEDRA', MA STAVOLTA HO ESAGERATO»

Quindici paia di scarpe che neanche a «Sex and The City», sette abiti da sogno e il Teatro Litta di Milano che scintilla di luce. Alla fine del servizio fotografico, maglia e pantaloni neri, seduta a un tavolaccio dietro le quinte, impugnando una forchetta di plastica, Arisa si concede un’insalata, col mais «ma senza mozzarella». Polvere di stelle per la giurata di «X Factor», alle prese con gli alti e bassi di una vita da star e i postumi di una memorabile tele-sfuriata. Intanto, nei negozi esce «Amami Tour», il suo primo cd-raccolta live.

Arisa, lei è irrequieta: nell’ultima puntata del talent ha scatenato un putiferio sullo show, litigando con la Ventura ed Elio. Per poi scusarsi.
«Sì, sono irrequieta. E sono anche molto vera, fan della verità, e se m’infervoro, non è per finta. Lì ho esagerato. La tv non fa per me: c’è sempre un margine, più o meno alto, di finzione».
Però è strano vederla arrabbiata…
«Non so elaborare strategie, e non sono lì perché la gente dica: quanto è bella o brava Arisa! Sono lì per dare la miglior forma possibile al sogno di quei ragazzi. E sento questa responsabilità».
Sarà il suo ultimo «X Factor»?
«Non lo so. Quest’anno è particolarmente dura, ci sono state molte conflittualità. Però in genere alla fine le cose si risolvono. Staremo a vedere».
È passata da Calimero a sexy Rosalba…
«No, da Calimero a Calimero. Al massimo di diversi tipi: quello da sera, quello del mio paese, il Calimero di Milano… Sono come un iPhone, passo dal 4 al 5».
Si paragona a un cellulare?
«Massì, da un modello all’altro si aggiungono caratteristiche, si cerca di migliorare il software, perdendo qualcosa che non andava. Ma sempre un telefono rimane».
La vedo anche molto dimagrita…
«Neanche tanto, sa? Sembravo più in carne. Mi vestivo di più per schermarmi dal giudizio degli altri. Cercavo di non farmi giudicare al 100%. E mi piace sottolineare le cose che non amo di me».
Come ha scelto i brani del cd?
«Sono quelli del tour: un percorso obbligato. Ci sono le mie cover in finto inglese, libera interpretazione di una lingua straniera. Più due inediti: “Meraviglioso amore mio”, che a gennaio sarà nella colonna sonora del nuovo film di Brizzi, “Pazze di me”, e “Senza ali”, che ho scritto io».
Ora lo può confessare: gli occhialoni con i quali debuttò a Sanremo con «Sincerità», furono un’imposizione.
«Figurarsi se ci sono case discografiche oggi che fanno un progetto sul look di un’artista. Anzi, me li sconsigliarono. Poi provai le mie lentine a contatto, pian piano presi confidenza con loro e un giorno abbandonai gli occhiali».
In questi giorni esce il film d’animazione «Un mostro a Parigi», che ricorda «La bella e la bestia», dove lei doppia la cantante Lucille. Torna l’Arisa formato cartoon?
«Questo lavoro era di tale raffinatezza e intelligenza che non potevo non accettare. Il messaggio è non fidarsi delle apparenze, accettare le diversità. È vero, oggi c’è più tolleranza, ma quando si ragiona per massimi sistemi. Nel quotidiano le cose cambiano».
E come la mettiamo con il ruolo di una perpetua nel film di Natale di Neri Parenti, «Colpi di fulmine»?
«È una donna sanguigna, un personaggio che mi dà la possibilità di parlare praticamente il mio dialetto lucano. Ricostruisce un mondo che è quello di famiglia, a Pignola (Potenza), e ricorda una grande zia che fa inconsapevolmente ridere. Finalmente saranno contenti i miei compaesani».
Perché, si lamentano di lei?
«A volte dicono che li trascuro, ma non è vero. La mia terra è una delle sette meraviglie d’Italia».
Crede in Dio?
«Sì, è un’energia di cui ho bisogno tutti i giorni. La Chiesa invece è stata creata dall’uomo, quindi è imperfetta. Per cui non seguo tutto ciò che predica».
Quante storie ha avuto dopo la fine di quella con il suo fidanzato, l’autore Giuseppe Anastasi?
«Una, che continua tuttora e che mi fa essere felice quando devo esserlo. Sto con un produttore tv, che ha una piccola società indipendente ed è molto impegnato. Come me. Quindi ci concediamo l’amore quando possiamo».
Quale sarà la sua prossima trasformazione?
«Quando avrò il materiale per uscire con un nuovo album di inediti cambierò un po’ direzione musicale: vorrei puntare sull’elettronica, che amo tanto».

(TV SORRISI E CANZONI - NOVEMBRE 2012)

lunedì 3 dicembre 2012

ROUTE 66 * DA ST. LOUIS A TULSA, PASSANDO PER JOPLIN E L'ALTRA SPRINGFIELD


Il tratto di strada fra St. Louis e Springfield (l'altra Springfield, in Missouri, dopo quella cupa e simpsoniana in Illinois) si apre alla campagna ed è una parata di paesi più o meno identici che hanno come unica attrattiva le Caverns, ovvero le grotte. Attrattiva minimale per i turisti, ma anche unico divertimento per la gente del posto, pensionati e famiglie, che si trastulla tra visite guidat
e e weekend col pranzo al sacco in riva al fiume. Non c'è altro, manco a pagare in euro. Le Caverns più famose qui non sono quelle di Batman, bensì le altre, di Meramec, dove nel 1870 si nascosero Jessie James e la sua banda. Ma ogni piccolo centro ha le proprie, che custodisce gelosamente. Grotte, solo grotte. I bambini della zona infatti sono tutti sull'orlo dell'esaurimento nervoso. "Mamma, che cosa si fa questo weekend?". "Piccino, andiamo alle Caverns". "Ma come, ancora? Two Balls, mum!". "Daddy, mi porti al cinema stasera?". "No, serpentello, il più vicino è nell'altro Stato, a millemila miglia da qui. Vediamo... Potrei portarti alle grotte!". "Nooooooooo... (segue bestemmia) Ancora?! Ma che cosa danno?" "Stalattiti, lo sai, è un capolavoro". "Stalattiti lo so a memoria, l'avrò visto mille volte... Non ci si può spingere fino a stalagmiti, o al limite quarzo rosa o ametista?". "Non so, dai, poi vediamo. Ma lo sai che Stalattiti è meglio di Titanic!". E così, da decenni, la famigliola arriva sul posto e poi muta, in disperante, fantozziano silenzio, con coca cola e combo di pop corn, entra a vedere le grotte. Ogni volta come se fosse la prima.
Joplin, Missouri. In uno dei tanti fast food, troneggia un innovativo dispenser Coca-Cola touch screen. Partendo dalla Coke classica e da altri 20 marchi legati all'azienda, con relative varianti, ti consente di miscelare da solo - sul posto - piú di 100 bibite con acqua e ghiaccio. Una bomba. La fredda Joplin è l'ultimo sberleffo del Missouri (Mêsùri, come lo chiamano qui) prima di entrare in Oklahoma sfiorando un brevissimo tratto di Kansas. La temperatura in meno di un centinaio di miglia passa da 10 a 30 gradi, come nel pomeriggio di ieri. Inizia il caldo, e si "arroventa" anche la Route. Grazie alla provvidenziale Lonely Planet scopriamo un breve tratto ancora percorribile della vecchissima Route 66: due metri e sette centimetri in larghezza. L'Oklahoma è lo stato con più chilometri di strada sul tracciato più o meno originario della Mother Road. Tant'è che incrociamo un maestoso gruppo di ricchi pazzi australiani che fa lo stesso nostro viaggio, ma seriamente. Una colonna con 40 auto, alcune d'epoca, tutte con bandiera al finestrino, e 20-25 bikers rigorosamente in Harley Davidson. Quando sei qui, in queste distese sconfinate di libertà (ben vigilata, soprattutto per la velocità) capisci che la Harley, con la sua estetizzante poesia, col placido rombo dominante, sarebbe in realtà l'unico vero modo di intendere da Route. Premiante e contestualizzato. E la Ford Escape con la quale sino al giorno prima facevi lo sborone perché in fondo "quelli in moto si prendono la pioggia e il gelo", ti fa sentire improvvisamente uno sfigato. Un impiegato del catasto della Route. Pollo fritto per dimenticare in un localino che più americano non si può (quando le cameriere parlano velocemente non capisco una beata fava ma intuisco il senso e poi mi arriva comunque quello che hanno deciso loro), e via verso Tulsa, che ha poco da dare ma almeno un consiglio non lo risparmia. È per gli acquisti, e viene dallo studio di un legale: Divorce, 100 $. 80 euro per un divorzio. Se si sapesse in Italia, quanta gente prenderebbe immediatamente la residenza qui?

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martedì 27 novembre 2012

ALDO, GIOVANNI E GIACOMO * «IMPIGRITI NOI? SIAMO I COMICI PIU' PROLIFICI D'ITALIA»

Spingi, mollichina!» Che tradotto in siciliano stretto si dice «Ammutta muddica». Ovvero il titolo dello show con cui i battaglieri Aldo, Giovanni e Giacomo tornano a teatro dopo ben sei anni. Sedersi con loro al tavolo di una trattoria milanese, è un concentrato di irripetibili emozioni.


Come la mette un comico quando deve far ridere, quando attorno c’è ben poco da ridere?
Aldo: «Il comico attinge dove c’è più disgrazia. Finché non è censurato va bene, e nel disastro ci sguazza».
Se vi eleggessero Presidenti della Repubblica, quali colleghi nominereste senatori a vita?
Giovanni: «Maurizio Crozza».
Aldo: «Ficarra, che mi ha confidato il suo sogno di diventare un giorno sindaco di Palermo; mi farà assessore».
Giacomo: «Teo Teocoli».
Anche se è noto per essere un po’ irrequieto?
Giacomo: «Perché non conosce Crozza e Ficarra! Non è che il comico dev’essere per forza pulitino, ordinatino...».
Voterete per Beppe Grillo?
Aldo: «Sì».
Giovanni: «Sì, voterò il Movimento 5 stelle».
Giacomo: «No».
Questo nuovo show ha un titolo un po’ complicato...
Aldo: «È solo complicato da dire. Significa: spingi, mollichina!  Che vuol dire diamoci da fare, rimbocchiamoci le maniche in un momento un po’ complicato per tutti. Vedrà che diventerà popolare come “Prisencolinensinainciusol” e “Supercalifragilistiche...».
Il successo, negli ultimi anni, vi ha un po’ impigrito?
Giovanni: «È l’età, che ci impigrisce...».
Giacomo: «Smentisco. Noi siamo i comici più prolifici d’Italia: dal ‘92 abbiamo fatto quattro spettacoli, sette film, partecipazoni tv...».
Aldo: «È vero, rispetto all’attesa che c’è, usciamo meno».
Veniamo allo show, diretto da Arturo Brachetti, come il precedente «Anplagghed». Come sarà?
Giovanni: «Una serie di quadri, di sketch, nei quali si riderà a modo nostro. Seguiti anche dietro le quinte da alcune telecamere, che mostreranno quel che succede come se fosse improvvisato. Ovviamente non è così, ma ricorda “Rumori fuori scena”».
Sempre vittime e carnefici, ribaltando di volta in volta i ruoli?
«Certo. Ci saranno per esempio tre pazienti in ospedale: due sfigati e uno molto ricco, che si scoprirà aver fatto licenziare gli altri due; ma anche tre topi da laboratorio, sottoposti a ogni sorta di allucinante esperimento; e due sminatori, alle prese con una bomba molto sofisticata, che tentano di disinnescare con un robottino, Giacomo, che è peggio di loro; infine, un tatuatore killer - che modestamente sono io - con un assistente che non ama i tatuaggi e Aldo come vittima. Il tutto nel negozio di una cinese, Silvana Fallisi, che vende e ripara di tutto».
 Finita la tournée, che debutta a Pavia il 30 novembre, lo show andrà in tv, su Canale 5, a fine 2013. Ma per vedere il trio ancora al cinema, bisognerà aspettare l’anno dopo.

(TV SORRISI E CANZONI - NOVEMBRE 2012)

lunedì 26 novembre 2012

21/12/12 * FINISCE IL MONDO: CONFESSIAMO LE NOSTRE MAYALATE

21 dicembre 2012, prevista fine del mondo. 
L'occasione è di quelle ghiotte: confessare i propri peccati. Mica roba da sottovalutare. La Chiesa, per esempio (non pinco pallo), ci campa di rendita da duemila anni e rotti.
E se davvero sotto Natale i Maya ci regaleranno la tabula rasa, forse vale la pena di iniziare a vuotare il sacco. Forse è il momento di spiattellare le proprie «Mayalate», grosse o piccole che siano. Non devono per forza essere questioni di sesso o di corna. Ne basta una. Può anche trattarsi del dispetto al vicino di casa, o della porcata al collega. Basta togliersi il peso prima di steccare.
Il tutto non deve avvenire al cospetto di un prete, ovviamente. Sarebbe troppo banale e di scarsa soddisfazione. Meglio sul web, su Facebook, su Twitter. Anche in modo anonimo, sotto questo post, giusto per togliersi la soddisfazione e cautelarsi nel caso quei simpaticoni degli antenati messicani abbiano organizzato lo scherzone cinese. Un'enchilada coi fiocchi.
Dice, ok ma comincia tu. Ok, comincio io. Dico la prima che mi viene in mente: una volta ho scientemente rigato la carrozzeria di una persona malvagia. Dico il peccato, il peccatore lo sapete, ma consentitemi almeno di omettere la vittima. Adesso tocca a voi. Il giorno del giudizio è vicino: non facciamoci cogliere impreparati.

RENZI, LO SPAVENTA-GRILLO: UN MODELLO DI DESTRA CHE S'IMPONE A SINISTRA

Alle radici della buona affermazione di Matteo Renzi alle Primarie del Centrosinistra, ci sono essenzialmente tre motivi: 1) La freschezza anagrafica e comunicativa dell'uomo, a fronte del modello politico bersaniano che è e viene percepito come stantio, vuoi per l'età, vuoi per la lunga militanza politica. 2) Il pronunciamento a favore del sindaco di Firenze da parte di una fetta di personaggi dello spettacolo e di opinion leaders in grado di orientare l'elettorato nelle ultime fasi. 3) Renzi ha un'impronta sostanzialmente più scaltra e decisionistica, quindi di fatto è un modello di destra, che si impone a sinistra. Dove evidentemente molti si sono stancati dell'inconcludenza manifestata in questi anni da chi li rappresentava. Non mi stupirei se al ballottaggio una fetta di elettori tradizionalmente di destra andasse a votarlo. Un po' per sostenere un vento di cambiamento (Renzi è l'unico che può dare qualche pensiero a Beppe Grillo e al M5S), un po' perché il centrodestra sembra ormai completamente allo sbando. Comunque la si veda, l'inizio del superamento degli schieramenti secondo me è da vedere come un dato positivo.

venerdì 23 novembre 2012

ROUTE 66 * DALL'ORRENDA SPRINGFIELD AL FASCINO DISCRETO DI ST. LOUIS

Ho sempre amato Springfield in questa stagione: umidità al 238%, e la sensazione che se porti qui uno zombie, poi dice che si annoia. È la città che ha tutta l'aria di essere clinicamente morta finita sotto la scure della satira dei Simpson; c'è anche tanto di centrale termonucleare perfettamente riprodotta nel cartoon e la sera niente - assolutamente niente - da fare. Il destino dei tanti Homer locali, è segnato. I 305 chilometri di strada che da Chicago ti portano a Springfield, ricordano la Cassanese, coi suoi bei capannoni a scorrere. O certi vialoni di un comune a caso a nord di Milano. Tanto sono tutti uguali. Lungo il tragitto, ho visto anche un autoarticolato che trasportava mezza casa. Letteralmente. Una sezione di casa segata in due. Probabilmente, l'altra metà gliela consegnano al rogito e poi il tipo se la incolla dove vuole. 
La gloria di Springfield è Abramo Lincoln. C'è l'aeroporto Lincoln, il centro studi Lincoln, il museo Lincoln, il posto dove Abramo Lincoln ha fatto l'amore per la prima volta pizzicando la sua fidanzata nelle parti intime con quella bella barbetta sbarazzina. Fatti venire in mente una cosa che Abramo Lincoln può avere fatto, e qui in qualche modo c'è un posto dove la ricordano. Di sicuro non ha dormito al Red Roof Inn. 50,36 dollari a notte, wi-fi alla spera in Dio, colazione solo caffè in piedi alla reception, e il tacito accordo col ragazzo del bancone di non fare controlli col luminol sulle lenzuola, perché sennò poi bisogna chiamare i Federali e isolano la stanza col nastro giallo come "scena del crimine".
Chicago è una ragazza elegante ma un po' fredda, che non se la tira ma solo perché le porterebbe via tempo prezioso; Springfield una casalinga sciatta e fumatrice, donna ma solo per sentito dire; poi arrivi a St. Louis, signora sulla quarantina mai trascurata, che sembra avere ancora tanto da dare, con uno sguardo al passato e uno al futuro. Bella, St. Louis. Se vi capita fateci un giro. Merita, sommessa ed elegante. Con quella magica volta (dentro c'è un ascensore, ed è sorvegliata come un aeroporto, con tanto di controllo al metal detector) . E poi la squadra di baseball locale è quella dei Cardinals. Ci scommetto il cognome, che hanno qualche santo in Paradiso.

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giovedì 22 novembre 2012

ROUTE 66 * CHICAGO: DALLA WILLIS TOWER AL BIG BEAN DI ANISH KAPOOR

IL VOLO DALL'ITALIA PER CHICAGO
Volo Malpensa-New York per Chicago (il ritorno sarà da Los Angeles, il tutto strappato a Delta Airlines per 650 euro, con l'intelligente opzione multi-city). La simpatica carampana della Grande Mela seduta accanto a me, ogni tanto sbircia inorridita il truculento filmetto dalle valenze fortemente intellettuali che sto vedendo: "Abraham Lincoln - Vampire Hunter". Non resisto alla tentazione, e le spiego, serissimo, che il mio socio e io ci stiamo documentando perché siamo due cacciatori di vampiri italiani decisi a percorrere la Route 66 per farli fuori tutti con una riserva di proiettili d'argento. Lei mi lascia parlare tranquillamente per un po', e poi ammicca sorridente: "But Vampires are so Chic!".

BUDDY GUY E LA MIA VIDEOCAMERA
Viaggiare è anche esportare cultura. Ieri notte, lasciato l'hotel tre stelle superior ben prenotato con Booking.com (a due passi dal chitarrone dell'Hard Rock Cafè), dopo una proficua sosta al Buddy Guy's Legend, tempio del blues della città, ho dimenticato sul taxi la videocamerina da 300 e rotti euro che m'ero comprato prima di partire. Persa per sempre. In breve, molta gente di Chicago ha potuto apprezzare un esaltante e lungo florilegio con le più suggestive imprecazioni di un nativo dell'Oltrepò Pavese. Delegazioni degli indiani d'America, di quartieri popolati da portoricani, e da altre minoranze maltrattate, come i lavoratori dei McDonald's, hanno espresso vivo interessamento per una lingua così piena, evocativa e ricca di sfumature. D'altra parte il blues, è sofferenza.

LA VERTIGINE DELLA WILLIS TOWER
Solo gli americani riescono a farti pagare 17,50 dollari per farti stare sospeso a 443 metri d'altezza in una scatola di vetro che sporge dal palazzo più alto della città, il Willis Tower (già noto come Sears Tower, grattacielo più alto del mondo dal 1973 al 1998) col rischio di fartela in mano dalla paura. Sporcando irrimediabilmente il vetro, fra l'altro.
Altra pregevolezza da non perdere è specchiarsi, fotografarsi (e fare facce buffe) tra i riflessi del Big Bean, il grande fagiolo dello scultore e architetto indiano Anish Kapoor. In centro, è un'attrazione che manco il giro in gondola a Venezia.

PARCHEGGI INTERRATI E INCUBI DA SOTTERRARE
Di Chicago ho capito due cose: ci sono più parcheggi interrati e autosilos, che abitanti. Forse li usano per seppellire i vicini di casa dopo averli fatti a pezzi. E poi è lampante che se a cena vai al Weber grill a mangiare la tagliatona (almeno un chilo) di manzo affumicata con uso di ogni sorta di salsa piccante come contorno, poi la notte sogni di essere un manipolatore genetico che viene inseguito in un campo dalla sua cavia trasformatasi in mostro. Lo ammetto: non mi è passata un cazzo.

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mercoledì 21 novembre 2012

ROBERTO PARODI * DOPO CRISTINA E BENEDETTA, ARRIVA IN TV L'ULTIMO FRATELLO

Concreto, positivo, accessoriato, aria da vincente naturale, Roberto Parodi è la delizia (o la croce) di tutti gli intervistatori. Basta dargli il là, e ti inonda di parole. Il fratello meno noto di Cristina e Benedetta, travolge col suo invidiabile entusiasmo. Lo stesso che mette nella preparazione del debutto tv, dal 4 dicembre alle 23,20 su Italia 2 con «Raiders' Cafè - E ti bastano due ruote». Già, perché se il nome e il volto di mister Parodi da Alessandria ai più dicono poco, il nostro da anni è un guru per il mondo delle due ruote.

Parodi, lei a bordo di un’Harley Davidson ha girato il mondo. Che cosa ci fa ora vicino a un naviglio dalle parti di Abbiategrasso?
«Perché da Milano-Cape Town alle brevi distanze, rientra tutto nel progetto di questo format, che ho ideato. Dopo essere stato ingegnere e per 20 anni nella finanza, ho lasciato i vecchi lavori, per giocare questa carta».
Di che cosa parlerete a «Raiders Cafè»?
«Di moto, con lo stile leggero e ironico che mi appartiene. Ma solo marginalmente dal punto di vista tecnico. Saranno storie di persone, di viaggi, di emozioni vissute sulle due ruote, dal segmento custom (quelle uniche, di lusso, Ndr), all’Enduro, ai rallye».
Con lei in trasmissione c’è un’altra deb: Veronica Calilli, 25 aani. L’ha scovata a Donnavventura?
«No, a una fiera dell’Eicma, l’Esposizione internazionale del motociclo, per la quale scrivo libri. Aveva alcuni tatuaggi, e mi ha colpito. Il tattoo rimanda istintivamente al nostro mondo».
Da Mediaset che cosa si aspetta?
«Anzitutto sono felice di arrivarci senza raccomandazioni, quando sorelle e cognati se ne sono andati. È un percorso fatto con le mie forze, chiamato da un dirigente che non sapevo essere mio fan. Siamo diventati amici, e mi ha proposto questo programma».
Lei ha due sorelle che come visibilità sono - diciamolo – un po’ impegnative...
«Sì, ma per me sono soprattutto amiche e ora parliamo anche di tv. Però nelle interviste, mi chiedono sempre di loro».
Dica la verità, il suo sogno è che un giorno si dica: Cristina e Benedetta, «Ah, le sorelle di Roberto Parodi».
«È già successo: anni fa, Cristina era ferma all’autogrill con suo marito, Giorgio Gori, e fu notata da un gruppo di motociclisti, che si sono avvicinati al finestrino per dirle: “Tu sei la sorella di Roberto Parodi”».
Per Cristina, uso due aggettivi: passione e rigore.
«Sì, ci sta. Meglio: passione e diligenza. Può apparire un po’ fredda, ma del resto se fai un Tg, mica puoi scatenarti… Lei è tedesca: lavora sodo finché non ha portato a casa il risultato».
Benedetta si aspettava di diventare una specie di Suor Germana, nuovo guru delle ricette?
«Non se l’aspettava, e credo che il boom sia stato più editoriale, che televisivo. Prima ha fatto la rubrica in tv, ma è diventata punto di riferimento dopo l’uscita del libro di “Cotti e mangiati”».
Ha notato che da quando suo cognato Gori è il boss della comunicazione di Matteo Renzi, Renzi veste come Gori? Jeans e camicia bianca.
«Sì? Allora le dirò di più. Se Renzi veste come Gori, allora Renzi veste come vorrebbe Cristina Parodi».
L’altro cognato, Fabio Caressa, è diplomato in Public Speaking. Ma a casa, con Benedetta così loquace, riesce a proferire parola?
«Scherza? Al di là del suo apparire un po’ burbero, un pater familias, Fabio a casa è straccoccolato da una moglie dolcissima e premurosa. Se rinasco, voglio rinascere Fabio Caressa».


L'AUGURIO DI CRISTINA E BENEDETTA
Sia Cristina che Benedetta sono più giovani di Roberto, e i tre fratelli risultano da sempre  legatissimi. Ecco l’augurio dell’ultimogenita di casa Parodi: «Sono un po’ gelosa perché da adesso in avanti, tutti sapranno quanto è figo! In bocca al lupo, fratellone, ma d’ora in poi non fare più viaggi lunghi e pericolosi!».
Ecco infine la voce di Cristina, la tele-veterana: «Robi ne ha fatta di strada con la sua moto in giro per il mondo... Gli auguro che questo programma sulle reti Mediaset sia l’inizio di un nuovo viaggio, altrettanto entusiasmante, che lo porti molto lontano... Se lo merita: è il più artista di noi tre, e certamente quello che ha più talento!».

(TV SORRISI E CANZONI - NOVEMBRE 2012)

martedì 20 novembre 2012

NICOLA SAVINO * «L'ISOLA DEI FAMOSI? LA METTO NEL LIMBO DEGLI SHOW NON MORTI»

Parlagli di quel che ti pare, compreso il suo nuovo game-show, «Un minuto per vincere», in onda dal 22 novembre in prima serata su Raidue, ma il volto di Nicola Savino si illumina solo con tre consonanti e due vocali: Inter. «È un periodo strepitoso, e con l’età mi rendo conto che peggioro. I miei familiari mi guadano come uno da curare: ho visto dai preliminari di Champions, sino alla magia di Juventus-Inter. Come spiegarlo? È vivere con 60 mila persone ogni settimana un’eterna adolescenza. Immutabile. Le donne possono capirlo forse solo parlando di borsette, o di scarpe. Meno male che ora c’è questo programma, a Roma, altrimenti diventava preoccupante».

Nicola, torni in sé per un attimo e mi dica come mai l’hanno richiamata in video: non si poteva tenere in panchina un vincente?
«Sono orgoglioso che la Rai l’abbia fatto, intanto: a me questi giochi piacciono, e mi piace parlare con la gente. Come molti sanno, avrei dovuto occuparmi della nuova edizione dell’“Isola dei famosi», invece...».
Invece è dispiaciuto che l’abbiano cassata.
«Se le dicessi di no, mentirei. Con Vladimir Luxuria ci siamo divertiti molto a farla, e sarebbe stata un’edizione ancora più cucita sulla nostra pelle. Ma l’azienda, rispondendo a una domanda di sobrietà che viene dal Paese in un momento difficile, ha deciso di  toglierla dal palinsesto, anche per abbattere alcuni costi, e io rispetto questa scelta».
C’è forse anche il problema del cast. Il parterre dei soggetti interessanti da reclutare sembrava ormai oggettivamente sguarnito...
«Mi creda, non è così. E non è neppure la formuletta: è finito il tempo dei reality, ora tocca ai talent. Avevamo già studiato alcune soluzioni che giocando su ripescaggi e altre malizie, ci avrebbero consentito di portare a casa una buona edizione. Pazienza».
Che cosa facciamo? La archiviamo nel limbo dei programmi non morti, allora?
«Mi piace pensare che sia così».
Sta provando a cambiare faccia alla Tv italiana?
«Temo sia un’ambizione troppo grande. Cerco di essere informale, amichevole. Mi rifaccio a Insinna, Bonolis, Scotti, Conti. Vorrei poter dire che sono il 2.0, ma ho ancora molta strada da fare. Forse sono lo 0.1». 
Le pesa ereditare questo show, che è un format non suo, già testato da Max Giusti lo scorso anno su Raiuno?
«Mannò, anche l’Isola era un format non mio, partito con qualche aggiustamento da fare e recuperato - mi sembra onestamente - in corsa. Non ho più certe insicurezze».
È rimasto lontano dalla tv per un po’, ma in fondo la fa tutti i giorni, con Linus, su Deejay...
«Beh, quella telecamera è solo un buco della serratura sul programma».
Quest’anno la vostra squadra in radio ha subito alcuni rimaneggiamenti...
«Allude all’uscita di scena di Platinette e Fabio Volo?».
Alludo.
«Credo che Fabio volesse dedicarsi in modo più serio alla tv, e per Plati non conosco i motivi. Certo, mi spiace che se ne siano andati, da sempre amo fare squadra. Ma sa come si dice, no? Tutti siamo utili, nessuno è insostituibile. Me compreso. E lo dice uno che è stato più a Radio Deejay che con i suoi genitori».
Come, scusi?
«Certo, sono lì da 23 anni, e me ne andai da casa quando ne avevo 22. Quindi è ufficiale: ho passato più tempo a Deejay che con mamma e papà».
Un piccolo record.
 «Il vero genio fu Cecchetto, che nell’82 - credo faccia fede l’opportuna copertina di “Sorrisi” - creò un’idea blindata che resiste al passaggio di chiunque. È un flusso continuo di musica, c’è e ci sarà sempre».

(TV SORRISI E CANZONI - NOVEMBRE 2012)

venerdì 16 novembre 2012

LA BELLA DONNA DI 40 ANNI E LE FOTO (SFUOCATE) SU FACEBOOK

Mi rendo conto che il passaggio dalla condizione di Gran Gnocca, a quella di Gran Gnocca di 40-45 anni, possa risultare complicato. Soprattutto se non si è psicologicamente attrezzarti per compierlo. Servirebbe una manualistica o gruppi di auto aiuto. Resta il fatto che spesso passa da una buona dose di umorismo involontario. C'è una persona fra i miei contatti, sicuramente una bella donna dal fisico ancora notevole, che posta continuamente (primavera/estate/autunno/inverno) sue foto in costume da bagno. I suddetti scatti, in genere in barca, a bordo piscina, al party con l'amica, col cocktail in mano, la posa ammiccante, ecc. si caratterizzano per essere sempre, tecnicamente orrendi. Già, perché la ragazza ha trovato la sua strada per combattere l'invecchiamento: pubblicare su Facebook foto scure, in controluce, mezze sfuocate, con effetti flou che non usano più manco Amara Venier e Bernarda D'Urso. Trucchetti di bassa lega che impastano luci e colori, nascondono rughe e garantiscono il ti vedo/non ti vedo. In sostanza, percepisci che lì dietro c'è una gnocca, ma non ne distingui bene i contorni. Perché ridursi così? Dunque avanti, seduti in circolo tutti insieme: «Raccontaci di te, Marika». «Ciao a tutti, sono Marika, ho 45 anni, e mi sono resa conto che sto invecchiando...».

martedì 13 novembre 2012

C'È LA CIALTRONERIA BUONA, E QUELLA CATTIVA...

C'è la cialtroneria buona, e quella cattiva. Un po' come il colesterolo. La cialtroneria buona, quella che ho sempre difeso e che un po' m'appartiene, è quella piccola, innocua furbizia che ti aiuta a vivere, a portare a casa il risultato quando è difficile farlo. A superare brillantemente (o simpaticamente) le difficoltà con un escamotage che - di fatto - non porta danno al prossimo. Oggi purtroppo siamo tragicamente circondati da quintali di pessima, vera cialtroneria: nei rapporti sociali, personali, e quant'altro. I cialtroni veri, inaffidabili e prepotenti, dominano la scena e avvelenano la società. Con la loro protervia. Con l'essere meno di niente, ma impegnandosi al massimo per far credere di essere qualcuno. Poveracci, in definitiva. 

lunedì 12 novembre 2012

«IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE»? UN EQUIVOCO, COLPA DELLA SORDITA' DI OBAMA

«Il meglio deve ancora venire», ha detto pochi giorni fa Mr. President, il 44° nella storia degli Stati Uniti d'America, salutando la propria riconferma sulla poltrona politicamente più calda del pianeta. Altri quattro anni - gli ultimi - alla guida degli States.
Da allora si sprecano le analisi giornalistiche sulla frase con cui Barack Obama ha voluto non più ingraziarsi, ma ringraziare il proprio elettorato. Molti pensano si tratti di un banale messaggio di speranza in un momento difficile per gli Usa e il mondo intero, fra buchi (neri) di bilancio e altalene dei mercati; altri credono abbia voluto in qualche modo promettere meraviglie ai delusi dopo un inizio di percorso amministrativo difficile, complicato e contestato. Il tutto mentre il rivale, Mitt Romney, sul suo profilo Facebook, perde seguaci al ritmo di 800 al minuto. A dimostrazione del fatto che non soltanto gli italiani hanno il vezzo di correre in soccorso del vincitore.
In realtà quella frase, «Il meglio deve ancora venire», è frutto di un equivoco familiare mai chiarito e di una lieve forma di sordità del Presidente, che è ignota ai più. Grazie ad alcune amicizie influenti in quel di Washington e nel suo staff ristretto, sono in grado oggi di fare piena luce sulla verità.
Obama e Michelle, alla Casa Bianca, hanno una coppia di vicini molto politicamente scorretti. Si tratta dei bianchi caucasici John e Ramona Coltrane. John e Ramona, 43 e 30 anni, lui operatore ecologico («Chiamatemi spazzino, grandi teste di cazzo!» ribatte sempre ingrugnato a chi lo definisce con la formula più ipocrita del mondo), lei parrucchiera, abitano una vecchia casa diroccata contigua alla sfarzosa dimora presidenziale. Il pasticciaccio lo combinò nel 1807 quel giargianella di Thomas Jefferson, che una notte - in mutande, dopo aver perso una partita a poker e decisamente sconsigliato dagli altri collaboratori - concesse a un suo assistente tuttofare gran maneggione antenato di Coltrane, tale Jason, di costruire sul retro della White House una piccola depandance letteramente incollata all'edificio principale. «Che vi importa? Tanto nelle foto ufficiali il palazzo si vede sempre solo di fronte, non state a menarla troppo», disse il presidente concedendo l'autorizzazione. Non sapeva di firmare una condanna anche per tutti i suoi successori. I Coltrane, che con gli anni avevano sviluppato una robusta fede per il partito repubblicano, avevano sempre avuto fama di attaccabrighe, e amavano parlare chiaro. Non conoscevano la diplomazia. In questo, anche John e Ramona si erano trovati. E se lui mal sopportava l'ipocrisia buonista, lei confezionava permanenti e meches concedendosi il lusso di parlare chiaro alle clienti. Se in negozio si presentava una signora che richiedeva espressamente una particolare, strana acconciatura, lei - anziché abbozzare ed eseguire col tono mieloso di molte colleghe - la guardava negli occhi e le diceva: «Oh vecchia, io te la faccio, ma sappi che ti sta da schifo! Poi non ti lamentare». Molte di loro, chiaramente, non si ripresentavano più. E questo, alla lunga, aveva influito anche sul tenore di vita dei Coltrane, i quali avevano due entrate mensili che sommate non ne facevano una piena. Con due figli da mantenere e frequenti litigate che li facevano sembrare un po' il negativo della coppia patinata presidenziale, sempre tutta coccole e sorrisi.
Come se non bastasse, se loro a letto si erano un po' raffreddati, gli Obama avevano una vita sessuale che faceva ancora scintille, vuoi perché a Barack le cose continuavano ad andare bene, vuoi perché - si sa - la gente di colore, oltre ad avere la musica nel sangue, è nota anche per altri, scarsamente visibili ma percepibili attributi. Quasi ogni notte tra Barack e Michelle era una festa, che non lasciava spazio al sonno dei poveri Coltrane. Spesso i feroci amplessi si consumavano ululando anche sul tavolo della Stanza Ovale. Lo stesso sotto il quale anni prima, ai tempi di Bill Clinton, aveva trovato posto la maliziosa sfrontatezza di Monica Levinsky.
La notte, quasi ogni notte, la copula frenetica degli Obama gettava scompiglio nella stanza da letto attigua dei vicini. Ore di sfiancanti gemiti ai quali Ramona non sapeva rispondere in altro modo che con un: «Ma devo farvi arrestare dai Federali? Allora, porca eva, avete finito?», accompagnato da qualche colpo secco dato alla parete e sferrato con il bastone del mocio lavapavimenti. «Sì, ti piacerebbe» ribatteva John urlando con tutta la forza dei suoi polmoni, perché i vicini lo sentissero «Il negro deve ancora venire!». Quella frase beffarda, che conteneva non solo tutto il suo odio per i democratici, ma anche per "quel" democratico in particolare, la ripeteva ogni volta come uno slogan politico. Dall'altra parte, Michelle riusciva a coglierla in modo abbastanza distinto (ma non ne faceva mai parola al marito, per non ferirlo), mentre Obama, vuoi per la furia dell'incontro carnale, vuoi per un vecchio problema di sordità moderata non progressiva del quale pochissimi erano a conoscenza, non sentiva o capiva solo parzialmente.
Quel che successe la notte della vittoria alle elezioni, ha del miracoloso: visti i risultati, Obama si era rintanato con Michelle nella Stanza Ovale con sei chili di caviale del Volga, e il migior champagne, che faceva scorrere a fiumi. Quasi giunto all'acme del piacere, dopo le regolamentari tre botte sulla parete da parte di Ramona («Avete finito?») il livorosissimo Coltrane, incazzato come una bestia anche per l'umiliazione subita in troppi collegi, lanciò il rituale: «Sì, ti piacerebbe... Il negro deve ancora venire!». La frase arrivò incredibilmente un secondo dopo l'orgasmo presidenziale, e Barack credette finalmente di sentire: «Il meglio deve ancora venire!».
Per tutta la notte, e sino al mattino dopo, quelle cinque parole gli ronzarono in testa. Da un lato, le condivideva con orgoglio. Dall'altro, non riusciva a capacitarsi della genialità di quel suo brusco, forzato vicino di casa, sempre un po' ostile e che non aveva mai considerato troppo intelligente. Doveva ricredersi. «È vero, ripeteva fra sé e sé Mr. President: il meglio deve ancora venire!». Chiamò Michelle e le comunicò la sua intenzione di giocare su quella precisa frase, rubacchiata al buon Coltrane, per il discorso di re-insediamento. Michelle, prima donna afroamericana a ricoprire il ruolo di First Lady, abbassò gli occhi, e ancora una volta non ebbe il coraggio di fiatare. In fondo era un momento di festa che la verità non poteva sporcare. E poi, che cos'è una piccola bugia a fronte della pace familiare e di quella di un'intera Nazione? «Sì, ciccino» gli rispose col sorriso un po' tirato. «Mi sembra proprio una bella idea». Lui se ne andò soddisfatto a ripassare lo speech.
In quello stesso istante entrò Malia, la prima delle due figlie della coppia presidenziale, che non conosceva l'antefatto ma aveva ascoltato tutto da dietro la porta. «Mamy, ma papy lo sa che quella frase, “Il meglio deve ancora venire”, l'ha già detta Ligabue?». «Ligabue chi, il pittore?», rispose Michelle, che aveva buoni studi alle spalle. «Mannò, Ligabue il cantante italiano! Ce l'ho sempre sull'iPod» s'impuntò la piccina. «Aaaaahhh, il capellone...». «Mannò, mamma, adesso se li è tagliati...».
«No tesoro, non lo sapevo. Grazie». E intanto le accarezzò i capelli teneramente, pensando felice fra sé e sé: «Certo, è un omaggio a Ligabue. Un omaggio a Ligabue...».

martedì 6 novembre 2012

FRANCESCO TOTTI * RIESCO AD ANDARE D'ACCORDO PERSINO COI LAZIALI

Francesco Totti, stavolta, è tutto nostro. Anzi, Habemus Puponem, come forse direbbe lui, dopo aver dato alle stampe un nuovo libro umoristico, «E mo’ te spiego Roma». Volumetto nel quale il calciatore giallo-rosso sorpassa a destra il suo orizzonte editorial-barzellettaro, e scherza sulla storia millenaria della Capitale. Mentre in redazione facciamo la ola per esserci accaparrati in esclusiva il campione trasversale per antonomasia (romanista ma stimato da tutti, sportivo ma spesso in prestito alla pubblicità, e con una moglie che più televisiva non si può), lui risponde docile alle nostre domande senza neanche succhiarsi il pollice come quando in campo segna il goal cruciale.

Buongiorno Totti, lei - a modo suo - la storia di Roma l’ha già scritta. Come mai ora sente il bisogno di piazzarne un’altra in versione umoristica?
«Buongiorno. Ironia e allegria permettono di raccontare storie con leggerezza, senza noia. È come un passaggio smarcante in partita, un mezzo bello ed efficace. La gente ha bisogno di sorridere. E voi lo sapete bene: il vostro settimanale i «Sorrisi» li ha nel nome, è il periodico seguito da tutti, di tutte le età».
Nel libro non chiarisce un dettaglio non trascurabile: l’ottavo Re di Roma, in definitiva, è lei o Paulo Roberto Falcão?
«Facciamo che uno siederà sul trono nei giorni dispari e l’altro nei giorni pari (sorride, Ndr). A parte gli scherzi, Falcão è una leggenda. L’essere paragonato a fuoriclasse di questa grandezza, per me rappresenta un motivo d’orgoglio».
Ho trovato esilarante il suo latino romanizzato («Anvedi quaestum», «Sei de coccium»). Parla così anche a casa, con Ilary, Cristian e Chanel?
«E’ stato divertente ideare frasi come quelle, che hanno reso il  libro più spassoso, ma a casa meglio di no: s’immagina cosa sarebbe anche solo chiedere il sale a tavola? Chissà poi cosa ti passano…».
Lei è Re, ma anche gladiatore. Qual è la cosa più coraggiosa che ha fatto nella sua vita da residente nella città eterna?
«Il vero coraggio non è legato ai ruoli o alla fama. È dire sinceramente ciò che si pensa, impegnarsi per le cose in cui crediamo e fare del nostro meglio per noi e i nostri cari tutti i giorni. Ognuno, nel suo piccolo, può essere coraggioso».
Un problema che lamenta è l’impossibilità di girare indisturbato a Roma, perché sarebbe assediato dai fans. Vive blindato? Gira travestito?
«Più che lamentarmene, ci scherzo su. La gente mi dimostra affetto, un amore grandissimo. Quando ho compiuto gli anni mi è arrivata una meravigliosa marea d’auguri sul mio sito (www.francescotti.com, NdR). Non penso esista al mondo un popolo caldo come i romani».
Se incontra un laziale, scatta l’odio e finisce in rissa, o in genere prevale l’ammirazione per il Totti vip?
«No no, ma quali risse… Certamente la rivalità con i biancocelesti è sentitissima. Sono da anni capitano della Roma ed è normale che per loro io rappresenti una specie di avversario fisso, fa parte del gioco. E il sano sfottò è un aspetto goliardico e irrinunciabile del calcio».
Roma è fatta anche di Senatori: Sordi, Venditti, Baglioni, Verdone, Petrolini, Proietti e altri. Faccia una graduatoria dei suoi preferiti.
«Non la faccio: sarebbe come metterli a confronto, uno contro l’altro. Li immagino giocatori della stessa squadra, uno spaccato di romanità. A volte le graduatorie dividono, assieme si vince».
Nella sua vita, ha appeso più lucchetti a Ponte Milvio, o più fidanzati gelosi al muro?
«Niente lucchetti, né fidanzati gelosi. Ma da ragazzo avevo appeso in camera il poster di Giuseppe Giannini».
Nel libro ci sono suoi colloqui immaginari con Gesù Cristo, Giulio Cesare, Zeus e molti altri. Ma nella sua vita qual è la persona importante che ha conosciuto?
«Qui non ho dubbi: l’incontro più intenso della mia vita è stato quello con Giovanni Paolo II. Di lui non posso dimenticare gli occhi gentili e quella sensazione di pace che sembrava circondarlo».
Nell’antica Roma la tv non c’era, ma lei ha il privilegio o la sfortuna di conoscerla. Che cosa ne pensa e che cosa guarda?
«Spesso la si guarda in famiglia, di sera, lascio che scelgano anche Ilary o i ragazzi, ma quando c’è il calcio ho il telecomando. Sui nostri tre televisori guardiamo di tutto, in particolare film; poi varietà e gli eventi sportivi. La tv è utile per informarsi e svagarsi; come in tante cose, basta non esagerare».
La tv è divisa per generi: telefilm, varietà, programmi giornalistici, musicali. Come mai secondo lei il calcio fa più audience di tutti?
«Perchè è il principale sport  praticato e seguito da persone di tutte le età».
E se potesse scegliere di condurre un programma, per esempio «Le iene» con Ilary?
«Ora ho in testa il calcio. Sinceramente, non ci penso».
Cinema e dischi. Che cosa le piace vedere e che cosa ascolta?
«Prevalentemente cinema e musica italiani. Mi piacciono molto le canzoni di Claudio Baglioni».
Ilary sembra avere la grinta e l’energia di Cleopatra. Le ha mai impedito di fare qualcosa?
«Ha una gran personalità ma non è una persona intransigente: parliamo di tutto e prendiamo le decisioni importanti sempre insieme. Questo significa essere una coppia».
Roma è stata fondata da Romolo, incendiata da Nerone, e sarà distrutta da chi? Da politicanti corrotti?
«No no, Roma non verrà distrutta. È per questo che è chiamata la Città Eterna, no?».
Quando lascerà il calcio, organizzerà un baccanale stile rave party allo «Stadio Olimpicum», come lo chiama lei? E come sarà?
«Non ci ho mai riflettuto, ho sempre nella testa la prossima partita da giocare. Magari quel giorno inventeremo qualcosa per salutare calorosamente tutti, ma ora è presto per pensarci».
A proposito di baccanali: che cosa ne pensa di quello che sta succedendo nella Regione Lazio?
«Altro che Bacco e i baccanali... Che gran baccano che c’è stato! La gente di Roma chiede che si faccia completa chiarezza su quel che è accaduto; poi se qualcuno ha sbagliato è giusto che paghi».
Libri sulla romanità a parte, a quando il suo prossimo spot?
«Quando mi presentano un’idea simpatica e di buon gusto, è difficile che dica di no. Tornerà l’occasione per uno spot, ma ora al centro della mia attenzione rimangono la famiglia e la Roma».
Se l’euro dovesse fallire, tornerebbe alla lira o ai sesterzi?
«Si potrebbe coniare un nuova moneta. Come li vedreste i prezzi espressi in cucchiai?».

(TV SORRISI E CANZONI - OTTOBRE 2012)

lunedì 5 novembre 2012

CELENTANO IN «ROCK ECONOMY» 2012 * LA SCALETTA DELLE DUE SERATE

LA PRIMA SERATA
Svalutation (1976) Dopo la lettura del Manifesto sulla decrescita, dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, si parte con un classico.
Rip It Up (1956) Ancora ritmo con lo storico pezzo di Bill Haley & the Comets.
Si è spento il sole (1962) Romanticismo con un tocco retrò.
La cumbia di chi cambia (2011) Il brano che Jovanotti ha scritto per Celentano, dall’album «Facciamo finta che sia vero».
L’emozione non ha voce (1999) Dedicata all’autore Gianni Bella, una tra le canzoni più intense del Molleggiato. Testo di Mogol.
Io sono un uomo libero (2000) Pezzo scritto da Ivano Fossati, presente tra i vip in Arena.
Pregherò (1962) Per proprorre la cover di
«Stand by Me», il cantante ricorda che Paolo Bonolis, in platea, l’ha caldamente richiesta.
L’artigiano (1981) Vecchio brano che inneggia alla disobbedienza fiscale, forma embrionale
del Celentano pensiero.
Cammino (1983) Preceduta da qualche problema tecnico con un sequencer (strumento che crea e riproduce segnali audio di controllo per gli strumenti, Ndr) andato in blocco e un testo sbagliato finito sul gobbo elettronico.
Il ragazzo della via Gluck (1966) Proposta semplicemente, alla chitarra acustica,
per uscire dall’impasse.
Scende la pioggia (1968) Arriva Gianni Morandi e spezza con un suo brano il contestato dibattito con l’economista Jean-Paul Fitoussi e i giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.
La Mezzaluna (1962) Un cha cha cha per «sdrammatizzare».
Ti penso e cambia il mondo (2011) L’amore come valore aggiunto salvifico per il singolo e per l’umanità.
A Woman in Love (1977)
Per sognare dolcemente.
Prisincolinensinainciusol (1972)  Una grande pagina per chiudere e ricreare il feeling col pubblico.

LA SECONDA SERATA
Mondo in Mi 7a (1966) Preceduta da una parziale rilettura del manifesto di Latouche.
Soli (1979) Un classico romantico, a firma Del Prete-Minellono-Cutugno.
L’arcobaleno (1979) Di Mogol-Gianni Bella. Arrivano i primi problemi con la lettura sul gobbo elettronico, e Adriano la butta subito sull’autoironia.
Storia d’amore (1969) Brano che tra le firme porta anche quella dello stesso Celentano.
Si è spento il sole , Viola e Ringo
Proposte in uno strano medley legato dall’ultimo pezzo, che fu un must del vecchio Carosello.
Il ragazzo della via Gluck (1966) In coro con tutto il pubblico dell’Arena di Verona.
Cammino (1983) Preceduto dal balletto, con una splendida coreografia di «Yuppi Du».
Straordinariamente (1969) Dedicata a Sofia Loren, che ama molto questa canzone.
Pregherò (1962) Altro ritorno di un pezzo già proposto durante la prima serata.
Un mondo d’amore(1967) Sigla l’ingresso in scena di Gianni Morandi, con un suo classico.
Caruso (1986) Ottimo omaggio di un commosso Gianni Morandi all’autore, lo scomparso Lucio Dalla.
Sei rimasta sola(1962) Quasi una ninna nanna, che Adriano canta insieme con l’amico e collega di Monghidoro.
Una carezza in un pugno(1968) Altra pagina immortale, che infiamma la platea.
Ti penso e cambia il mondo (2012) Qualche problema all’attacco, e Adriano se la prende bonariamente col maestro Fio Zanotti.
Azzurro Pietra miliare di repertorio, cantata con tutta l’Arena in piedi.
Anna parte (2011) Pagina recente del repertorio di Celentano.
Ready Teddy (1956) Rilettura di un classico di Little Richard.
Prisincolinensinainciusol (1972)
Torna la geniale onomatopea musicale per congedare la platea.

(TV SORRISI E CANZONI - OTTOBRE 2012)

ROCK ECONOMY 2012 (ARENA DI VERONA) * LA RESURREZIONE DI ADRIANO

«Stasera scusate ma c’è stato qualche piccolo problema » ha sussurrato Adriano – a telecamere spente - al pubblico dell’Arena di Verona, appena chiuso il sipario sul primo appuntamento con il suo «Rock Economy», in onda in diretta l’8 ottobre su Canale 5. Per poi attaccare, a mo’ di «risarcimento» per i propri fans più fedeli (e spendenti), il pezzo bonus: la trascinante «Rock Around the Clock». Un Bill Haley datato 1965 che a casa nessuno ha potuto apprezzare. Celentano è tornato, e ha vinto.
Al di là dei numeri, imponenti per la rete (8.918.000 spettatori col 31,8% di share per il primo show e 9.112.000, share 32,82% per il secondo), e al netto delle perplessità per l’Adriano in versione talk-show, respinto dalla platea veronese, il nostro è riuscito a ricucire il rapporto col suo pubblico dopo un Sanremo tormentato. E l’ha fatto per giunta in territorio Mediaset, che mai prima d’ora aveva ospitato l’uomo degli eventi Rai per eccellenza.
Un’altra cosa che la tv non vi ha mostrato, è stato il costante assedio dei fans all’Hotel Due Torri, dove il cantante è rimasto asserragliato insieme con la moglie, Claudia Mori, e il suo staff, modificando in corso d’opera la scaletta top secret della seconda serata, che originariamente  prevedeva un altro dibattito con l’economista Beppe Scienza e il direttore di Rai 4, Carlo Freccero. Segmento che Celentano ha deciso di tagliare dopo l’accoglienza ricevuta dal primo spazio analogo: quello con Jean-Paul Fitoussi e i giornalisti Rizzo e Stella. «La gente vuole che io canti, e lo farò», avrebbe detto al suo entourage.
E mentre in Arena la security si dava un gran daffare per bloccare coloro che tentavano di riprendere lo show con una videocamera, «Rock Ecomomy» decollava anche sui social network. Su Twitter, lo spettacolo ha registrato il record stagionale di 34.626 «cinguettii», con 10.291 utenti che hanno effettuato almeno un tweet sull’evento (Dati GroupM Research & Insight).
In città, invece, hanno transitato per giorni alcuni sosia di Celentano, che la sera, dopo gli show del loro idolo, tentavano di prendere posto nei ristoranti del centro, stracolmi, sostenendo di aver prenotato «A nome Adriano». Il trucco, ovviamente, non riusciva mai. Persino Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo (nel parterre vip la prima sera insieme con Paolo Bonolis, Eros Ramazzotti, Paola Perego, Marco Mengoni, Federica Panicucci, Ezio Greggio, il paroliere Mogol, Gerry Scotti, Marcella Bella, Ivano Fossati e Massimo Caputi) a tarda notte non sono riusciti a sedersi per mangiare un boccone. L’unico presente a entrambe le serate (oltre alla figlia di Adriano, Rosita, che aveva occhi solo per papà), è stato Al Bano Carrisi, in città insieme con un amico russo. I russi (come ha dimostrato anche la tollerata invasione di palco della bella ragazza bionda, salutata in diretta da Morandi e Celentano) hanno occupato Verona e l’Arena per il live che si consumava a 18 anni dal precente tour del Molleggiato. Ed erano disposti a spendere qualsiasi cifra pur di potersi sedere in platea.
Tra le presenze degne di nota del parterre della seconda serata, si segnalano l’ex allenatore del Genoa Malesani, la contessa Marta Marzotto, l’attore e produttore Andrea Occhipinti, e Valerio Staffelli, il tapiroforo di «Striscia», sgattaiolato via sotto finale per evitare la ressa tenendo per mano la moglie, l’ex showgirl Matilde Zarcone.

(TV SORRISI E CANZONI - OTTOBRE 2012)

giovedì 11 ottobre 2012

PIERO CHIAMBRETTI * «TORNERO' IN STRADA, MA NON PER FARE IL ROMPIBALLE»

«Con Mediaset ho ancora un anno e mezzo di contratto, e mi sono trovato benissimo. L’azienda mi ha chiesto di studiare un progetto, che è quello di tornare a fare tv in mezzo alla strada, come ai miei esordi. Oggi è il posto migliore dove stare per raccontare la realtà, altroché uno studio».
Piero Chiambretti, in onda su Radio 2 con «Chiambretti ore 10», pensa al suo ritorno in video. «Ma con calma» dice «perché a volte rispetto alla tv si dice che è meglio restare alla finestra. E in qualche caso anche chiuderla». Però la cosa è nell’aria, «anche se non c’è niente di definito. Si tratterà di una seconda serata di Italia 1, durante la quale tornerò in strada, ma non come “Portalettere”, sarebbe assurdo, né per provocare, prendere insulti e mazzate, come l’ennesimo rompiballe. Devo trovare una formula che sia lontana dal tipo che corre col microfono inseguito da una telecamera, lontano da “Le iene”, “Striscia”, “Report”, e quant’altro. E non avere una durata obbligata: se c’è stata caccia grossa, ci si dilunga, altrimenti si accorcia dando solo il meglio».

(TV SORRISI E CANZONI - OTTOBRE 2012)

NOVITA' E NUOVO LOOK PER GIUSY FERRERI

Secondo posto alla prima edizione di «X-Factor», Giusy Ferreri non si vede in giro dal cd «Il mio universo», che risale ai primi mesi dello scorso anno. Giusy intanto ha cambiato look (il suo fan club ha pubblicato una foto che ce la mostra com’è oggi), e sta lavorando con la cantautrice e produttrice discografica statunitense Linda Perry a un nuovo album. Che comunque non uscirà prima del 2013.

(TV SORRISI E CANZONI - OTTOBRE 2012)

mercoledì 10 ottobre 2012

IL BILANCIO DI «ITALIA LOVES EMILIA» (CAMPOVOLO 22 SETTEMBRE 2012)

Il 22 settembre 2012 è stata una data indimenticabile. Per le 13 star della musica italiana che hanno scaldato il palco di «Italia Loves Emilia» e per chi ha potuto dire: «Io c’ero». 151.992 spettatori paganti sul pratone di Campovolo (Reggio Emilia), per un incasso totale di 3 milioni e 800 mila euro (ma il dato finale della solidarietà è ancora da aggiornare con altre voci) che ora andranno in beneficenza alle scuole terremotate della zona. Senza contare il pubblico che in radio, su 11 network nazionali, ha assistito allo spettacolo. E le 180 mila persone che hanno seguito il concerto su Sky, per un totale di 60 mila acquisti dell’evento (ovvero altri 600.000 euro per la causa). Il nostro ricordo di Campovolo è il collage di alcune tra le foto più belle twittate dagli artisti.

(TV SORRISI E CANZONI - SETTEMBRE 2012) 

giovedì 4 ottobre 2012

AL BANO * «MA SECONDO LEI, HO MAI CANTATO AL KARAOKE?»

La canzone che mi ricorda il primo bacio.
«“Concerto in Do Maggiore” di Tchaikovsky. Ero a Milano, di notte, in via Santa Maria Fulcorina, al 13, sotto un portone, e lei si chiamava Adriana. Due ore indimenticabili, grande atmosfera. E io, appena arrivato in quella grande città che non conoscevo, ero impacciato e intimidito. Temevo uno schiaffone, che forse al Sud sarebbe arrivato. Invece prese lei l’iniziativa».
La canzone che mi hanno cantato come ninna nanna.
«“Ninna nanna de lu lupu”, in dialetto salentino: me la cantava mia madre. Un misto di dolcezza e protezione, persino dal lupo cattivo, che spaventava tutti i bambini. Il lupo è il simbolo di Lecce, ma quando ne ho visto uno vero, spelacchiato e in gabbia, è stata una delusione».
La canzone che mi ricorda casa.
«Domenico Modugno e la sua “Nel blu dipinto di blu”. Mimmo ha cambiato la musica, e fu il simbolo della rivalsa del Sud. Fu un faro e uno sprone per tutti noi: se ce l’ha fatta, posso provarci anch’io, ripetevamo: dal cantante, all’ingegnere».
La canzone che mi fa pensare alla mia famiglia.
«I brani lirici, da Puccini, a Mascagni, spesso trascritti per corpo bandistico da un grande da troppi dimenticato: il maestro Ernesto Abate, di Squinzano, a 8 chilometri da casa mia. Ha fatto cose straordinarie, lo conoscono per tanti versi in tutto il mondo, ma al suo paese non si sono ancora decisi a dedicargli qualcosa».
La prima canzone che mi ha ossessionato.
«“Only You” dei Platters, coi loro falsetti. Una rivoluzione. Ogni anno arrivava una giostra dalle mie parti, e io tornavo spesso, solo per risentirla».
La canzone che mi ricorda la scuola.
«“Piove (Ciao ciao bambina)” di Modugno. L’insegnante di musica me la faceva cantare in direzione, davanti al preside. Ma era anche idealmente il mio saluto a una ragazza che fu per due anni il mio vero obiettivo: ero innamoratissimo, ma non le ho mai detto nulla. Non ci siamo più visti finché non ho inciso il mio primo disco, “La strada”».
La canzone che riesce sempre a farmi piangere.
«“Nessun dorma”, dalla Turandot di Puccini. Mi tocca l’anima, e non solo quando la canto io. Ci sento la disperazione di un uomo che sta per lasciare questa vita per raggiungere l’altra».
La canzone del mio primo amore.
«“Prima di dormire”. La scrissi alle magistrali, per la ragazza di cui sopra».
La canzone che avrei voluto cantare.
«L’elenco sarebbe lungo, ma dico “Perdere l’amore” di Ranieri. Per colmare qualche lacuna ho inciso da poco un disco intitolato “Fratelli d’Italia”, nel quale interpreto pezzi come “Margherita” di Cocciante, “E tu” di Baglioni, e tante altre».
Il mio pezzo forte al karaoke.
«Non ho niente contro questa forma d’espressione musicale, ma secondo lei, ho mai cantato una canzone al karaoke?».

(TV SORRISI E CANZONI - SETTEMBRE 2012)

mercoledì 3 ottobre 2012

ELENA SOFIA RICCI * LA SUORA PIÙ CONVINCENTE (E ACCLAMATA) DELLA FICTION ITALIANA

Suor Angela, vorrei confessarmi con te…», le chiede incautamente il nostro fotografo. Elena Sofia Ricci stringe i suoi inconfondibili occhi di ghiaccio: «Ragazzo mio, certo che sei duro di comprendonio: sono suora, le suore non confessano. Devi rivolgerti a un prete!». Poi si gira, assume la tipica posa da religiosa modello fiction (braccia e mani aperte e sguardo beato rivolto al cielo) davanti a un’Alfa Romeo d’epoca, e mentre attende i lampi del flash, si lascia andare a un’inequivocabile: «Che s’ha dda fa pe’ campà…».
La protagonista de «I Cesaroni» (Canale 5) è a Modena, sino a dicembre, sul set della seconda serie di «Che Dio ci aiuti», in onda dalla primavera prossima su Raiuno. E «Sorrisi» l’ha blindata all’interno del «Museo Casa Enzo Ferrari», dove si girano alcune scene, non tanto per indagare sull’inedito rapporto suore e motori, ma per proporre ai lettori un’anteprima che sa di celestiale.

Signora Ricci, le suore fanno tante rinunce, ma nel suo caso quella al trucco sembra essere la meno pesante da sopportare…
«Un filo c’è, ma non me ne parli: poi coi capelli raccolti nel velo, ci metto due minuti. Ogni volta, è un’ora risparmiata: per i set de “I Cesaroni” mi sveglio mediamente alle 5,30. Qui, alle 6,30».
Dal mimimal di suor Angela al ritorno come Lucia, truccatissima e circonfusa di luce nella quinta serie de «I Cesaroni». Un bel contrasto.
«È il bello di questo mestiere. Non parliamo di “Mine vaganti” di Ozpetek, dove passavo due ore a imbruttirmi. A volte, serve coraggio».
Non è certo il suo caso, ma spesso le belle attrici hanno anche la percezione che recitare sciatte o struccate, faccia risaltare la loro bravura.
«Pensiero che non mi ha mai sfiorata. Dipende sempre dal personaggio che devo valorizzare, da ciò che recito e da come lo recito».
Qualche rinuncia professionale, l’ha dovuta sopportare?
«Mai, anche conciliando privato e lavoro: i miei picchi professionali hanno sempre coinciso con i periodi nei quali ero incinta: quando aspettavo Emma, facevo “Caro maestro”, e per Maria c’era “Orgoglio”. Non mi sono fatta mancare niente, neanche “Come tu mi vuoi” a teatro. La mia cosa più difficile e importante».
In questa nuova serie di «Che Dio ci aiuti» avrete meno intrighi e più sentimenti. Come mai?
«Piuttosto, ci siamo accorti negli ultimi episodi dello scorso anno che il pubblico gradiva di più alcune tematiche a sfondo sociale. Parleremo quindi anche di adozioni, usura, strozzinaggio. E praticamente sparirà la linea gialla, con incidenti e morti».
In che cosa somiglia a suor Angela?
«Ma io sono suora inside (dentro, Ndr), e anche un po’ Furio, ha presente il personaggio di Verdone? Sono curiosa della vita, e ho un certo carattere. Non dimentichiamo che suor Angela ha un passato di rapina a mano armata e concorso in omicidio. Non è il mio caso, ma anch’io sono stata una ragazza vivace».
Ora però si è imborghesita...
«Assolutamente. Del resto, a parte qualche vero proletario, ormai siamo tutti imborghesiti. E ringrazio mia madre per avermi fatta crescere nella borgata di Acilia, a Roma. Dove ho conosciuto i proletari veri».
Può dare indicazioni vincolanti sui suoi copioni?
«Sì, do indicazioni agli autori, come tutti i colleghi e le guest star. In genere se ne parla, e i problemi, le incongruenze, si aggiustano: del resto, siamo eroi: oggi si lavora con tempi ristrettissimi e pochissimi soldi. Si magnificano gli sceneggiati di un tempo, ma non so quei cast e quelle produzioni come lavorerebbero oggi, in queste condizioni».
Mi permetta l’ineleganza di sottolineare che ha appena compiuto 50 anni. Quali lussi si può concedere?
«Per esempio, quello di evitare le scene d’amore: ho già dato in passato: guardavo il soffitto pensando alla clausola del contratto con la cifra del compenso. Poi, siccome sono bravina, davo l’impressione che mi piacesse».
Dice di essere stata danneggiata dal suo non apparire nei salotti del potere, eppure lavora continuamente.
«Sono tra le attrici più raccomandate dal pubblico. Fortunatamente, se funzioni e fai ascolti, ti richiamano».
Un traguardo ancora da raggiungere.
«Vorrei fare come gli inglesi, e portare al cinema i classici del teatro italiano. E poi qualche fiction dedicata a due-tre grandi donne».
Come Eleonora Duse, se n’è parlato…
«Per carità, il nome lo fa lei, a me ha portato male solo accennarne. Se vuole mi vesto di viola, passo sotto le scale, rovescio il sale, ma non parlo di quei progetti». 
Perché i «Cesaroni» piacciono tanto?
«Perché sono tornati a mordere un po’, a fare “caciara”, a essere Cesaroni, appunto. Nelle ultime stagioni si era stemperato un po’ tutto nel sentimentalismo, e a mio avviso ha nuociuto. Ora siamo tornati con Francesco Vicario alla regia; lui è un genio della commedia e fa anche “Che Dio ci aiuti”».
Presentando la nuova serie de «I Cesaroni» Claudio Amendola ha accennato a qualche problema sul set parlando di qualcuno che voleva mettersi troppo in evidenza. Che cos’è successo?
«Se lui non ha fatto nomi, non ne farò certo io. Posso dire che per quattro/cinque mesi abbiamo girato divertendoci come pazzi. Poi sì, qualche frizione si è avuta, ma ci sta. Cose delle quali mi sono del tutto disinteressata, anche perché ero alle prese con la malattia di mio padre, che poi è mancato».
Con lei nessun problema, quindi?
«Figurarsi. Io e Claudio abbiamo più ore di volo insieme che la Loren e Mastroianni. La prima cosa fu “Quei 36 gradini”, nell’84, dov’era mio fratello. Poi abbiamo fatto insieme 7 serie, con una media di 10-12 puntate ciascuna».
Da suora laica, quali pensa siano gli errori della Chiesa?
«A volte noi progressisti abbiamo preconcetti nei confronti dei preti e di certo bigottismo. Eppure basta cercare e se ne incontrano di fantastici, moderni e aperti. Come suor Benedetta, che mi ha aperto gli occhi e che dice cose come “Che figata!”, come tutti noi. Il cristianesimo è una grande cosa. La Chiesa invece dovrebbe ammorbidirsi un po’ su certi dogmi. E poi è comunque una struttura di potere. E dove c’è il potere, lo vediamo anche in politica, finisce che ci sono problemi».

(TV SORRISI E CANZONI - SETTEMBRE 2012)

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