martedì 12 dicembre 2023

MISS ITALIA 2023 * SEGRETI E VELENI DEL CONCORSO DI BELLEZZA DI PATRIZIA MIRIGLIANI

Miss Italia 2023 Francesca Bergesio. L'evento a Salsomaggiore è stato condotto da Jo Squillo.

Prima di finire a "Chi l'ha visto?", Miss Italia ha giocato la carta del ritorno, dopo 13 anni, nella location gloriosa di Salsomaggiore Terme, dove lo scorso weekend, durante l'84' edizione del concorso di bellezza, è stata incoronata la mora piemontese Francesca Bergesio. 19 anni, 1.80, viene dal Liceo Classico, ha studiato recitazione e sogna una carriera come cardiochirurgo, ma senza trascurare moda e cinema. La sintesi potrebbero essere i film horror-splatter. Nata a Bra, vive a Cervere, nel Cuneese, si definisce "pacata, riservata, semplice e determinata", ed è figlia del Senatore leghista Giorgio Maria Bergesio. "Certo, perché no?!" dice a Gente la patron del concorso, Patrizia Mirigliani, alludendo a chi arriccia il naso. "Avrei dovuto penalizzarla per questo? Miss Italia è sempre stata sinonimo di inclusività". E anche se con inclusività di norma s'intende altro, a dire il vero persino le rivali (sportivamente) sono piuttosto concordi nell'ammettere che si trattava di una tra le più performanti in gara.
Seconda e terza classificata sono la lombarda Veronica Lasagna e la sarda Siria Pozzi. Trasmesso per lustri da Rai1 come evento simbolico quasi unificante del Paese, e poi brevemente da La7, Miss Italia vive dal 2020 in uno stato di semi-clandestinità mediatica, fra YouTube e streaming più o meno improvvisati sul web che sono ben lontani dalla grandeur dell'età dell'oro. Sono cambiati tempi, costumi e anche la sensibilità femminile. Non è che Miss Italia vive, per usare una metafora, in analogico in un mondo ormai digitale? "Se così fosse non riceverei 10 mila candidature l'anno da tutta Italia. Che male c'è? In questo che pure per me è stato l'anno più difficile. C'è poca visibilità? Per forza, se ti manca la vetrina promozionale televisiva, come fai?", ribatte Mirigliani, che ha raccolto da tempo l'eredità del padre Enzo e che quest'anno, sul palco, a fine serata, ha letto un discorso molto polemico e toccante. Prendendo di mira anche l'ex presidente del Senato Laura Boldrini. "Sì, perché - continua -: partì tutto
dal suo pubblico anatema di qualche anno fa. La Rai dopo una vita sparì da un giorno all'altro, e ora si fa sempre più fatica. Ma io difendo la mia azienda, la Miren, e un marchio storico per il Paese; non mi arrendo. Non lo farò mai, anche se contro di noi c'è un evidente complotto. Ho scelto di parlare come non ho mai fatto. Una volta queste cose si risolvevano dietro le quinte. Oggi l'unica cosa da fare è mettere tutto in piazza".
Di fatto l'edizione 2023 del concorso è stata più un chiaro atto politico che una sfilata di acerbe bellezze. Per sancirlo senza mezzi termini, Mirigliani ha chiamato in giuria (oltre a Hoara Borselli e Giulia Salemi), due galli da combattimento come Giuseppe Cruciani e Vittorio Sgarbi, che hanno eletto anche altrettante Miss ad personam: la stupenda campana Jasmine D'Aniello e la piemontese Ludovica Tullio. "Miss Italia è patrimonio culturale italiano" arringa il Sottosegretario. "Trovo vergognoso che non ci sia una rete nazionale che lo mandi in onda. Questo è fascismo, è censura violenta. Mi vergogno della
tv italiana che la mette in un ghetto. Se fanno Sanremo con i cantanti scarsi, se ci va Fedez a baciare chi vuole, perché non dovrebbero fare Miss Italia? L'integralismo di chi vuole cancellarla non può essere condiviso da questo Governo. Montanelli e Benedetto Croce sarebbero favorevoli a Miss Italia. E anche Berlusconi. Beh, lui se l'è fatta addirittura a casa".
Il primo passo in vista di riappropriarsi della prima rete di Stato ("Sarebbe la collocazione più idonea", ammette Mirigliani) in nome del servizio pubblico, è il ritorno a Salsomaggiore. Caldeggiato dal sindaco Luca Musile Tanzi. E anche il Paese, come il concorso, che si è tenuto nel vetusto Palazzo dei congressi, fra mille intoppi organizzativi dietro le quinte e sul palco ("Abbiamo fatto tutto in 20 giorni", si giustifica Mirigliani), porta i segni di un antico splendore. Il tentato rilancio fa comodo a entrambi. Ma non mancano le perplessità: "Vedo poca promozione e per me quello di quest'anno è solo un test"
dice un albergatore del centro. "Ci provarono già tre anni fa, chiedendo 7.000 gratuità per i pernottamenti di tutto il carrozzone, fra miss e addetti ai lavori. Troppi. Non trovarono un accordo. E poi non puoi chiedere agosto o settembre, che sono gli unici mesi in cui ancora lavoriamo con i clienti termali: a giugno o dopo ottobre, volentieri. Ora c'è una nuova giunta, vedremo. Ma anche Salso è alla frutta: col covid abbiamo perso il 30% delle presenze, e ogni anno viene a mancare il 10% circa perché non c'è ricambio generazionale sui termali".
Per ciò che riguarda le ragazze in gara, siamo al prepotente ritorno della provincia, che forse vive ancora, più dei grandi centri, la fascinazione per Miss Italia. Su 40 finaliste, ben 30 vengono da paesini, anzi "da un piccolo paesino" come precisano loro. Dimenticate le reginette che reclamavano "la pace nel mondo". Ci sono due rilevanti conflitti in atto nel pianeta, ma nessuna ha fatto menzione alla guerra nel corso di tutta la manifestazione. In materia di aggettivi per auto-definirsi, "solare" è in forte calo, e in netta crescita "determinata, forte, ambiziosa". Stabile l'umiltà. Una se n'è uscita con un "leale" che non si sentiva dal '32. C'è quella che "A 26 anni sono la più anziana in gara", e l'altra che precisa: "Il Molise esiste e non va sottovalutato". Ma anche la mistica che "Ho una voce guida che mi dice 'You can', tu puoi, e la seguo sempre". Quella che si corregge: "Porto da mangiare ai pelosetti... Pardon, ai cani randagi", e l'altra che cita Schopenhauer. Chi sogna "la carriera diplomatica" e chi anela al "bar di mia proprietà da aprire con mamma". E naturalmente l'immancabile imbronciata alla quale leggi negli occhi: "Ma com'è che sono la più bella del paese, e qui in mezzo alle altre non mi si fila nessuno?". E' la concorrenza, bellezza.
Il ridimensionamento si fa sentire anche sul fronte degli sponsor. Accanto a nomi consolidati (Rocchetta, Miluna, Givova) spuntano il Caffè Truccillo e le clementine calabresi de I frutti di Casello Mascaro, che invadono il palazzo dei congressi restituendo ancora una volta il sapore della provincia.
"Quante bellezze che lavorano oggi in tv e nello spettacolo vengono da Miss Italia?", chiosa Patrizia
Mirigliani. "Sforniamo e aiutiamo talenti che poi si avvicinano alla recitazione, alla moda e a mille altre
occupazioni, pur senza farci direttamente agenzia, quindi senza conflitti di interessi. Mi dica lei: chi dà lavoro a più donne di Miss Italia, oggi nel Paese?". Se tu rispondi "Esselunga", la grinta modello Il Trono di spade della patron si scioglie in una risata. "Bene, allora vorrà dire che cercheremo di averla il prossimo anno come sponsor!".

(DAL SETTIMANALE GENTE - NOVEMBRE 2023)

lunedì 11 dicembre 2023

SCHERZI TELEFONICI * I PIU' GRANDI DELLA STORIA (NON SOLO) TELEVISIVA D'ITALIA

Da sinistra, Paolo Guzzanti, Teo Mammucari e Frank Matano.

La storia d'Italia è popolata di burle alla cornetta. E caderci è più facile di quanto si creda, senza essere per forza la Premier Giorgia Meloni. Lo scherzo telefonico è un'arte sopraffina, e può regalare grandi soddisfazioni. Si muove essenzialmente su due perni: l'imitazione accurata di un soggetto, oppure la sfrontatezza assertiva e ben documentata nell'argomentare. Se le due capacità coincidono, complice un po' d'ingenuità o distrazione della vittima, si gioca nel massimo capionato.
Tra gli amanti del genere c'era Alberto Sordi, che una sera, a casa di Anna Magnani, telefonò in piena notte alla collega Eleonora Rossi Drago, che il giorno successivo avrebbe dovuto ricevere il premio Noce d'argento. Fingendosi il segretario organizzativo dell'evento, le comunicò dapprima con dispiacere che non ci sarebbe più stata un'auto per venirla a prelevare a casa; subito dopò rincarò la dose dicendo che era sparita anche l'ospitalità in albergo, e per finire che la statuetta del premio sarebbe stata sostituita da riconoscimenti in natura, come polli e prosciutti. Pare che la Rossi Drago abbia accettato senza fare una piega tutti questi a dir poco vistosi ridimensionamenti.
Il nostro Paese ospita l'antesignano degli scherzi telefonici, per così dire, istituzionali. Diversi anni fa, in alcune stagioni di divertimento sfrenato, il giornalista Paolo Guzzanti (padre di Corrado, Sabina e Caterina), che riesce a imitare alla perfezione Sandro Pertini, seminò panico e confusione in Rai. Agenda alla mano, chiamò mezzo mondo politico della capitale e i maggiori notabili della tv di Stato, invitando alcuni di loro, con la voce del Presidente della Repubblica, a rinnovare il contratto in scadenza di Enzo Biagi; altri invece a non confermarlo assolutamente. Fu un cortocircuito. Come quello che procurò in video a Renzo Arbore chiamandolo in diretta, con la tipica calata pertiniana, a Quelli della notte. Andò peggio a Sergio Zavoli, allora Presidente della Rai, che si sorbì a mezzanotte, in mesto mutismo, un estenuante monologo del finto Capo dello Stato pieno di rampogne, mezzi deliri e frasi laconiche. Fu "tamponato" da un lancio notturno dell'agenzia di stampa Ansa con la quale si magnificava la straordinaria sintonia fra Zavoli e Pertini. Guzzanti senior, che in realtà è il vero giocherellone di casa, prese di mira anche Gianni Minà: si qualificò sempre come il Sandro nazionale, e gli chiese di disegnare a mano alcune cartine topografiche dell'America latina, dove il nostro stava per effettuare un viaggio ufficiale. Minà accettò, e si presentò a pranzo al Quirinale un paio di giorni dopo con le preziose carte, vedendosi respingere con perdite alla porta per quella visita della quale il protocollo non sapeva nulla. Lavorando ne La Repubblica di Eugenio Scalfari, dov'erano note le performance guzzantiane, un collega spesso preso di mira una sera mandò letteralmente a quel paese (credendolo Guzzanti) quello che si scoprì poi essere il vero Pertini. Ma il padre di Corrado, futuro Senatore, imitava anche la voce del direttore, convocando colleghi con le richieste più disparate. Una volta allo stesso caporedattore centrale di cui sopra annunciò addirittura il licenziamento, e lui si presentò paonazzo e urlante nell'ufficio di un attonito Scalfari.
A fare degli scherzi telefonici mestiere e show televisivo fu Teo Mammucari, che li sdoganò con il suo Libero, su Rai2. Riadattando con uno stile personale le supercazzole tognazziane di "Amici miei", Teo sapeva stordire l'interlocutore con un ritmo incazante di mezze frasi farlocche o incompiute, che si chiudevano quasi sempre con una domanda perentoria o un "Lei mi capisce, vero?". No, non capivano. Ma spesso abbozzavano. La redazione metteva finte inserzioni sui giornali per un lavoro da dog sitter? Alla prima chiamata Mammucari si fingeva molto disponibile, ma durante la conversazione simulava di picchiare urlando il cane di sua proprietà. La potenziale cliente ovviamente prendeva il volo. Con la complicità di Carlo Verdone (altro grande appassionato) prese di mira l'allenatore Fabio Capello, facendogli credere che un suo giocatore, Vincenzo Montella, uscendo ubriaco da un ristorante, avesse urlato l'intenzione di picchiarlo alla prima occasione, e che la notizia stesse per uscire sui giornali. Verdone poi, spalleggiato dall'appuntato Mammucari, fingendosi un agente della Polstrada, chiamò di notte una tra le sue vittime preferite: zio Ermanno, romano purosangue, per comunicargli che la sua auto, che credeva parcheggiata in garage, era stata rubata e aveva subito un incidente ad Anzio. Segue accurata descrizione del mezzo, lettura della targa e delle parti danneggiate. Fra le contumelie di zio, che alla frase: "Dottor Schiavina, è andata contro un albero, è praticamente distrutta", risultava visibilmente al limite dell'umana sopportazione.
Erede moderno di Mammucari, nato come fenomeno web e poi passato alla tv, è senza dubbio il goliardico Frank Matano, che ai suoi esordi su YouTube ha macinato milioni di visualizzazioni sfruttando un'ampia estensione vocale, che gli consentiva di riprodurre con estrema cura soprattutto vocine di bambini petulanti che chiamavano chiunque, a volte anche le reception degli hotel, aiutando finti genitori (sempre Matano) non a proprio agio con l'italiano a prenotare un soggiorno. Frank ha anche evacuato di notte case al piedi del Vesuvio annunciando un'imminente "lieve scossa della scala Oken, con probabili schizzi che bucano auto e tetti".
Lo scherzo più celebre, perfetto per lunghe cene tra amici, è quello di prendere di mira un soggetto e farlo chiamare a distanza di venti minuti-mezz'ora da almeno 6-7 commensali diversi chiedendo di un fantomatico Gino. L'interlocutore, perplesso e spazientito, dirà ogni volta che in casa non c'è nessun Gino, chiederà innervosito chi abbia fornito il suo numero (risposta standard: ovviamente Gino stesso), con chiamata finale così concepita: "Buonasera signore, sono Gino. Per caso ha chiamato qualcuno per me?".
Gli scherzi telefonici sembrano essere l'ultima isola dove il politicamente scorretto in Italia viene consentito e tollerato. Le radio, più corsare della tv, ne hanno sempre fatto largo uso. A volte andando anche sul pesante, come accade per esempio da anni a Paolo Noise e amici ne Lo zoo di 105.
Ormai le burle nell'etere sono diventate anche una forma surrogata di legittima difesa del cittadino. Per esempio dai centralinisti dei call center. E sono sicuramente più efficaci del Registro delle opposizioni. C'è chi risponde facendo ripetutamente il verso di galline o scimmie, sino alla resa del molestatore, che riaggancia.

(DAL SETTIMANALE GENTE - NOVEMBRE 2023)

mercoledì 6 dicembre 2023

VILLAGGIO FANTOZZI * UN FANTASTICO TRAGICO WEEKEND PER CELEBRARE IL RAGIONIERE

Un momento della celebrazione di Paolo Villlaggio, a San Felice sul Panaro.

Qui per le strade è tutto un: "Venghi", "Facci", "Dichi", "Batti lei!". Immaginate un paese di diecimila anime della bassa modenese, che si sveglia col profumo dell'erba da fieno tagliata di fresco, dove si celebra contemporaneamente la morte definitiva del congiuntivo e il talento sopraffino di una tra le più grandi maschere del cinema italiano. San Felice sul Panaro (si raccomanda l'accento sulla seconda a) si è trasformato per un'intera giornata nel "Villaggio Fantozzi". Dove Villaggio è scritto con la maiuscola, e tracce di Fantozzi si ritrovano in ogni angolo, ogni anfratto, ogni balcone. Sui quali campeggiano eterni moniti come: "Lei non ha un complesso di inferiorità. Lei è inferiore!". E altre frasi immortali che si rifanno alla saga dell'impiegato più celebre, bistrattato e sfigato d'Italia. Il libro, frutto di una raccolta di rubriche giornalistiche, uscì nel 1971. Il primo film, regia di Luciano Salce, è del '75, e diede la stura ad almeno altri due capolavori e a una serie di copie più commerciali ma che arrivarono al grosso pubblico. Merito anche di reiterati trucchetti l'inforcata della bicicletta "Alla bersagliera!", che perde malauguratamente il sellino proprio mentre Fantozzi ci si siede ignaro e con inusitato dolore. Di solito su questa scena crollava la sala dalle risate.
L'idea del Villaggio pride è del bancario Federico Mazzoli, che ha coinvolto come sponsor un istituto di credito locale, la Sanfelice 1893 Banca Popolare, la quale ha affidato la direzione creativa dell'operazione al fotografo Roberto Gatti; il regista Paolo Galassi realizzerà intanto un docu-film per le piattaforme di streaming.

Quindici volontari (primo fra tutti Roberto Gavioli) hanno lavorato per un anno in due hangar immensi per creare in gran segreto le scenografie, fatte con pannelli di legno riciclati e vernici destinate a essere smaltite. Venti set dedicati alle scene cult dei film (dalla Trattoria al Curvone alla scalinata della Corazzata Potëmkin) sono stati quindi sparsi nel centro del Villaggio. Più di quaranta Bianchine (la mitica auto sulla quale Fantozzi portava la segretamente amata signorina Silvani, Anna Mazzamauro) sono arrivate in paese da tutta Italia; una anche da Cinecittà. E lo show vero e proprio, che partiva dall'essenza dei Fantozzi per ammiccare al felliniano, ha coinvolto 200 figuranti. Del resto la madrina dell'evento, Elisabetta Villaggio, figlia dell'attore ligure e autrice del libro "Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio" si era raccomandata: "Mi sta bene, partecipo, ma per favore non fate una pacchianata, una carnevalata". E così è stato. "Mio padre sarebbe felicissimo qui oggi, anche solo vedendo tutte queste auto schierate" commenta. "E per tutto l'amore e l'effetto che gli vengono tributati dalla gente. Da piccola mi accorsi subito di avere in casa un genio, un uomo molto intelligente e dall'energia possente. E' stato ingombrante perché aveva un carattere fortissimo e a volte diventava ingombrante. Gli avevo vietato di venirmi a prendere a scuola perché tutti avrebbero visto l'attore e non mio padre. Ho fatto anche qualche comparsata in alcuni Fantozzi, come la sposa nella scena di un banchetto nuziale. E nella scena dell'autobus preso al volo la mattina c'è qualcosa di vero in famiglia perché papà la raccontava attribuendola a mio nonno. Forse romanzandola un po'. Pur essendo amico di grandi come Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, lui sul set, pur stimando i colleghi, aveva creato un rapporto d'amicizia solo con la sua controfigura, Clemente Ukmar, e Stella Battista, la sua sarta. Fra le chicche per cinefili, posso dire che la prima Pina, Liù Bosisio, lasciò dopo il secondo film perché non voleva essere troppo identificata con il personaggio, e rimpiazzata da Milena Vukotic. E la prima scena in assoluto girata di tutti i Fantozzi fu la partita a tennis tra la nebbia con Filini, ovvero Gigi Reder".
Assenti gli attori dei cast originali, per i cloni dei personaggi l'organizzazione ha attinto ad alcuni degli autoironici bancari della Sanfelice 1893. Tanto che il ruolo primario, quello di Fantozzi, è andato a Paolo Grossi, 49 anni, boss dell'Ufficio legale. E' sposato e ha due figlie ma la moglie ha ceduto volentieri il ruolo della signora Pina a Claudia Tartarini, 45 anni, impiegata in località Camposanto. Grossi, come quasi tutti, aveva anche almeno un doppio (in realtà in paese i ragionieri e i comprimari "non autorizzati" spuntavano come funghi, mandando in tilt i poveri fotografi, presenti a centinaia), in caso di indisposizione: l'ottimo Giorgio Giraudo, 61 anni, da Fossano. Che incarnava il ragioniere nella versione più domestica: canotta, bretelle, mutandoni ascellari, "Bottiglia di Peroni ghiacchiata e rutto libero". Anche Filini è un ex della Sanfelice 1893 (chissà se si ti diverti così anche quando vai da loro a fare un mutuo?): pensionato, 67 anni, "43 e 10 mesi di contributi", precisa con una certa pignoleria. E se delle signorine Silvani si è perso il conto, la parte di Calboni è andata allo psicologo e psicoterapeuta Matteo Merigo.
Intanto la titolare della drogheria Giberti, che si affaccia sul corso, ha recuperato un'introvabile bottiglia di Prunella Ballor, liquore cult ormai fuori commercio che Fantozzi proponeva ai suoi amici per un brindisi dopo il capodanno truccato del maestro Canello. Se volete provare a riprodurre a casa il Prunella di Fantozzi la ricetta si trova sul web. E' semplice. Ma senza questa dritta non si va da nessuna parte: le bacche di prugnolo vanno fatte seccare molto tempo al sole prima di utilizzarle, per togliere il tannino in eccesso che rovinerebbe tutto.

(DAL SETTIMANALE GENTE - OTTOBRE 2023)

martedì 5 dicembre 2023

SPOT * ANNI 80, QUANDO LA PUBBLICITA' CI FACEVA (QUASI) SOLO DIVERTIRE

Il pubblicitario Francesco Bozza insieme con la moglie, Carlotta Concato, figlia del noto cantautore milanese Fabio.

Ci fu un tempo in cui nuotavamo in acque pubblicitarie tranquille. Non tanto agli albori, quelli di Carosello (in Rai, dal 1957 al '77): lunghi momenti di spettacolo che furono l'apoteosi del rassicurante divertimento quasi "sedativo" degli italiani, ma anche nei decenni a venire. Popolati da mulini bianchi e attori di fama (Nino Castelnuovo) che saltavano staccionate grazie ai benefici effetti dell'olio di semi; da uomini in ammollo nel detersivo (il jazzista Franco Cerri) e sgambate majorettes canterine sul piazzale di centri commerciali. Da ragazzotti rintronati che non avevano mai provato "Urrà"; ma anche da alieni mignon che, una volta sulla Terra, intimavano di sviluppare rullini fotografici al grido di "Ciribiribì Kodak"; persino da idraulici che perdevano acqua dalle orecchie. Con l'andare del tempo gli spot si sono fatti sempre più veloci ma anche invasivi (lassativi e perdite urinarie all'ora di pranzo) o didascalici; aggressivi, divisivi, impegnati a lanciare messaggi e a scatenare dibattiti. Campagne che sembrano aver perso tanta voglia di (far) sorridere. Meglio ieri o oggi? Ne abbiamo parlato con un guru della pubblicità, Francesco Bozza, vice presidente e direttore creativo di una multinazionale americana del settore e ideatore di "Bar spot", format dedicato a questo mondo che porta da tempo sul palco di Zelig, in viale Monza, a Milano. La sua ultima fatica è uno spettacolo intititolato "Non ci vuole un pennello grande". Slogan che ci riporta a uno spot vintage quantomeno leggendario. In scena il 19 ottobre al Teatro Parioli di Roma, e il 10 gennaio al Martinitt di Milano.

Bozza, perché la pubblicità ha smesso di divertirci e divertirsi?
"Gli spot degli Anni 80, perché di quel decennio in fondo parliamo, più che divertenti in senso stretto, erano spensierati e memorabili. Si sedimentavano pian piano, a volte con messe in onda di anni, e ci entravano sotto pelle, insieme con i loro jingles, le musiche che li accompagnavano. Erano parte di noi".
Poi che cos'è successo?
"Prima c'era solo la tv. Poi è diventato via via tutto iper-veloce: una fruizione frenetica e superficiale, promo vampate attraverso 1.200 media diversi, con un'attenzione particolare al web e ai social, che sembrano essere ormai l'unico riferimento finale, l'unico posto dove ci sia confronto in Italia, a volte anche aggressivo, su vari temi. Prima si studiavano le cose pensando con estrema leggerezza".

Perdere motivetti memorabili e ritornelli più ariosi è parte del problema?
"Mio suocero, Fabio Concato, dice che gli piacerebbe che fra quarant'anni le canzoni di oggi diventassero jingle di spot come accade con la sua Domenica bestiale o con pezzi di Vasco e altri cantautori, ma non succederà perché c'è un'altra fruizione di ciò che è mediatico. Quindi abbiamo la reale percezione di una pubblicità molto più pesante e che si prende sul serio. E anche i politici, che non vedono l'ora di entrare nell'arena, come i gladiatori, dicono la loro approfittando di cose anche stupide".
Facciamo un esempio.
"Il caso relativamente recente del meteorite che schiaccia la mamma nello spot di Buondì Motta. Ci furono interrogazioni parlamentari! Se imposti una polemica sulla violenza nella pubblicità solo perché un meteorite infuocato schiaccia una mamma, una cosa totalmente surreale, siamo alla follia".

E' anche cambiata molto la società...
"E la pubblicità ne è lo specchio fedele. Ma negli Anni 80 uscirono con leggerezza cose peggiori, passando inosservate, come lo spot delle liquirizie Tabu: c'era un'immagine di "black face" del teatro americano dell'800, con un cantante bianco pitturato di nero. Il massimo del politicamente scorretto. Ma si sorrideva ascoltando la canzoncina. Fine. Le dirò di più: si ricorda il vecchio spot del Nelsen piatti?".
Quello de "I piatti-ti, i piatti-ti, con Nelsen piatti li vuol lavare lui"?
"Esatto. Nell'83-'84 fu il primo della storia italiana in cui si raccontava di un cambio sociale, di un uomo col grembiule e la canzoncina incentrata sul messaggio che è talmente figo lavare i piatti che lei non lo vuole più fare: li vuol lavare lui. Pieno di significati che oggi scatenerebbero il putiferio".

Veniamo alla pesca di Esselunga. Che cosa ne pensa?
"Da pubblicitario, ho visto sceneggiature sui bambini di genitori separati molto più emozionanti, come quella di Ikea; se parliamo di puro storytelling. Essere sul prodotto: è questo che manca allo spot Esselunga. Che è sulla bocca di tutti solo per le polemiche. E' un po' un problema perché da pubblicitario a me non interessa che la gente parli della problematica dei bambini separati ma del marchio. Poteva esserci qualsiasi altro supermercato. Credo che abbia scatenato questo bailamme per ragioni politiche".
Ma ne hanno parlato ovunque, anche nei Tg.
"Certo, perché il dramma della pubblicità oggi rispetto a ieri è che se ne parla non per gli aspetti creativi, ma solo quando scoppia un casino. Con le mamme schiacciate dai meteoriti, le fatine spiaccicate come insetti, la genitorialità diversa dal comune sentire. Negli 80 la si godeva e veniva citata, diventava slang e modo di dire. Dagli Anni 90 in poi non è più rimasto in testa alla gente un solo slogan. Zero. L'ultimo is 'Du gust is megl che uan' del gelato, primi Anni 90".

C'è qualche campagna di oggi che si avvicina al gusto degli Anni 80?
"Qualcuno gioca ancora con canzoni e balletti caciaroni. Penso a Febal e EstaThe. E poi c'è 'Succhino', il tizio che visita per la prima volta un appartamento da comprare e si sente così a casa che si spoglia nudo, fa la doccia e offre da bere. Vediamo un sedere in primo piano! Io adoro 'Succhino', ma non capisco le polemiche sulla pesca e la bambina - che sono l'unica cosa che resterà di quello spot, fatto anche bene da due creativi premiatissimi, ma a Esselunga non serviva questo, è già nota - quando c'è un sedere nudo in primo piano".
Ma davvero gli spot divisivi, quando sono così discussi e sulla bocca di tutti, non servono in qualche modo a promuovere il marchio? Non fa gioco?
"Dipende dal prodotto: la mamma schiantata dal meteorite del Buondì motta è oro che cola. Una merendina un po' vintage diventa ironica, trasgressiva. Ma se lo può permettere, in fondo è solo una merendina! Anche la birra Ceres ha fatto una campagna sui social molto grintosa ed efficace legata all'attualità, prendendo diverse posizioni nette. Per esempio, quando il sindaco di Milano Sala intimò agli operai dei cantieri dell'Expo di finire i lavori entro un mese, Ceres mandò una vagonata di casse di birra gratis e una troupe al grido di: 'Diamo una birra a questi ragazzi'. Lo spot della bambina e della pesca è finito anche da Vespa ma il brand non è stato neanche citato".

(DAL SETTIMANALE GENTE - OTTOBRE 2023)

lunedì 4 dicembre 2023

CUCINA * DIECI PIATTI POVERI PER SENTIRSI RICCHI

Un piatto di alici marinate, altrimenti dette acciughe al limone.

Oggi come oggi, per sentirsi ricchi, bisogna mangiare povero. Non potendo lasciar cadere nel vuoto la stringente analisi del Ministro Lollobrigida fatta al Meeting di Rimini ("Da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi: cercando dal produttore l'acquisto a basso costo, spesso comprano qualità") abbiamo deciso di proporvi i dieci piatti della cucina regionale italiana in grado di regalarvi il maggior percepito di benessere con la minore spesa. In pratica, come pilotare un gozzo sentendosi su uno yacht. Secondo uno studio dell'Università di Berkeley, in California, alcune di queste pietanze riuscirebbero di fatto, alla lunga, anche ad alzare l'ISEE (l'indicatore che serve a valutare la situazione economica dei nuclei familiari che chiedono una prestazione sociale agevolata), quindi è bene non abusarne o farne un uso avveduto. Non certo per paura di ingrassare, ma per timore di perdere in futuro eventuali sussidi.
Al bando quindi aragoste, caviale e ostriche. Ad aprire il portafogli sono capaci tutti. In Liguria la ricchezza si ostenta sfacciatamente con le Acciughe al limone. Basta stendere le alici del pescatore precedentemente imbevute nel succo d'agrume e cospargerle con basilico, origano, sale e olio d'oliva, e il gioco è fatto. Spostandoci in Emilia Romagna, più precisamente nel Piacentino, viaggiano da sempre in Ferrari i Pisarei e faśö. Ovvero gnocchetti di farina e pan grattato conditi con un sugo a base di fagioli, lardo, cipolla e pomodoro.
In Lombardia l'aristocrazia gastronomica punta molto sulla Zuppa alla pavese. In un bel brodo (dovrebbe essere di carne, ma se lo fai col dado anche gli sceicchi arabi ti guardano con invidia) si vanno a immergere fette di pane raffermo casereccio; si cosparge di formaggio grattugiato il tutto e si piazza un uovo fresco sulla sommità.
E' una variante della Panzanella, diffusa in tutta l'Italia centrale, ma prevalentemente in Toscana. Un piatto freddo di pane raffermo inzuppato in acqua e aceto di vino bianco, nel quale poi si mescolano pomodori e cipolle rosse, cetrioli e sedano. Con le ciambelle di grano duro rinsecchite (attenzione al lavoro del tuo dentista, che in genere non ha gli stessi prezzi del mercato rionale), in Puglia fanno le Friselle. Le quali vanno prima "sponzate", ovvero inzuppate in acqua e poi condite con olio, pomodoro, sale origano e tutto ciò che suggerisce la fantasia. Sempre restando in zona, ecco il Purè di fave e cicoria selvatica, arricchito con aglio, cipolla, sedano, pomodori e prezzemolo. Un pop in cucina ormai talmente top (direbbero gli chef figli di Instagram) che ha fatto diventare la "Cuoca itinerante salentina" Alessandra Ferramosca ambasciatrice di questo buon mangiare negli Stati Uniti.
La tradizione contadina di buona parte della Penisola ci rimanda la classica Zuppa di ceci, riccamente impoverita anche di porri, rosmarino, sedano, pepe, carote, cipolle bianche e passata di pomodoro. La versione lombarda si fa nel giorno dei morti (preferibilmente abbienti) aggiungendo zampette di suino. In Abruzzo e Molise invece è d'obbligo la Cipollata, d'uso anche a Tropea. Basta cuocere a lungo i bulbi in un brodo condito con olio, sale e pomodori maturi. Ma attenzione anche alla Sicilia, che esce a sorpresa con gli Spaghetti alla mollica fritta e uva passa. Un tempo molto amati da chi lasciava il Sud per cercare fortuna a Milano e dintorni.
Sul fronte dei dolciumi, infine, festa grande con le Pangialdine, originarie della Lomellina. Gli ingredienti sono farina gialla e bianca, burro, zucchero, uova e lievito. Meno di così c'è solo l'aria fritta.
Per ciò riguarda i vini, lasceremo perdere i prevedibili Champagne o brut millesimati: il bottiglione di bianco della casa consentirà brindisi regali. Con l'indice a gancio che esce lesto dall'incavo della bocca chiusa si può riprodurre agevolmente anche il suono del tappo che salta. In caso di eventuali banchetti di nozze, naturalmente, non dimentichiamo i fichi secchi.

(DAL SETTIMANALE GENTE - SETTEMBRE 2023)

venerdì 1 dicembre 2023

LINO BANFI: «CARO MARK ZUCKERBERG, PERCHE' NON MI REGALI IL MIO RISTORANTE?»

L'attore comico pugliese Lino Banfi, all'anagrafe Pasquale Zagaria.

L'unico vero vincitore nella disfida (mai nata) tra i multimilionari del digitale Mark Zuckerberg ed Elon Musk, è quel diavolo di Lino Banfi. "Pasquale Zagaria contro l'Intelligenza Artificiale" potrebbe essere il titolo di un distopico film interpretato dal nostro. Che con una lettera al Corriere ha menato ironiche botte da orbi al patron di Facebook per avere ingiustamente chiuso la pagina Noi che amiamo Lino Banfi Official, gestitita dal suo fan club, guidato da Calogero Vignera. Tempo un giorno e Meta (la società che accorpa Facebook, Instagram e WhatsApp) ha fatto marcia indietro, ripristinandola perché "non viola gli standard della community".

Lino, ma si rende conto che la sua è una vittoria epocale contro l'algoritmo?
"Me ne sto rendendo conto. Ricevo telefonate di gente gasatissima. E pensare che io manco sapevo che cosa fosse, l'algoritmo. Poi l'ho chiesto a Siri, l'assistenza vocale del cellulare, e a mezza bocca me l'ha detto. Ma con aria sfottente, tipo: hai 87 anni, amico, aggiornati!".
Da che cosa nasce il suo furore?
"Ma io non lo conoscevo, questo signor Fruckenberg! E' che sette anni fa un ragazzo siciliano entusiasta mi chiese il permesso di aprire una pagina dedicata a me: 700 mila iscritti in poco tempo".

Un boom.
"E ne ero felice. Manco un anno dopo, mi richiama intristito dicendo che l'algoritmo del Zuccherhnest ha chiuso la pagina perché ovviamente era piena delle frasi delle mie commedie: 'Ti spezzo la noce del capocollo', considerata istigazione alla violenza; e 'Chézzo' non va bene; e 'Porca putténa' è istigazione alla prostituzione". Ovviamente anche tutti i follower parlavano in questo modo, nel linguaggio banfiota che ho creato e diffuso in 60 anni. Ovviamente un gioco".
Che il freddo algoritmo non ha capito. Se dici: "Mi fai morire" non coglie che si intenda magari "Dal ridere". Se scrivi "Ucciderei per un piatto di gamberoni", non significa che vai in giro a sterminare gente per i crostacei.
"Esatto. Ma sulle prime me ne sono fatto una ragione. Vignera riapre la pagina, che arriva a 70 mila iscitti, e gliela richiudono. Poi 30 mila e succede ancora, e poi ancora. 'Lino, è arrivato l'ennesimo stop dall'algoritmo di Cucchiernher'. Loro protestano con Facebook, ma niente".

Un supplizio.
"Sino all'altro giorno, quando la frase incriminata era 'Picchio De Sisti', da 'L'allenatore nel pallone'. Ma è colpa mia se il soprannome del calciatore Giancarlo De Sisti era Picchio?! Non ci ho più visto, e ho scritto al giornale".

Portando a casa una vittoria su tutta la linea: come nei film quando richiamano in servizio l'ex marine vendicatore.
"Massì, infatti ero tranquillo qui al mare, al Circeo: mi alzo alle sei, leggo e scrivo un po'. Presto al Festival del cinema di Venezia il Nuovo Imaie, che si occupa di diritti d'autore, mi darà un premio alla carriera per i due milioni di copie vendute in Dvd de 'L'allenatore nel pallone'. E non prendo manco tre centesimi a copia, lo sottolineo. Ma ormai mi chiamano Maestro, teniamoci almeno le soddisfazioni".
C'è da dire che le sue commedie non sono mai state l'emblema del politicamente corretto. Per alcune definizioni degli omosessuali, oggi sarebbe lapidato.
"Una volta, pochi anni fa, mi guardarono storto anche in televisione, perché dissi una cosa simile riportando un aneddoto di mio padre, che era la persona dalla mentalità in realtà più aperta del mondo verso i gay. Ma i nostri vecchi parlavano così, il retaggio era quello".

Crede che il politicamente corretto abbia danneggiato la comicità?
"Beh, è un dato di fatto che di ogni categoria sociale si parli oggi, ti viene puntato subito il fucile addosso. Alla fine uno evita, e amen".

Che cosa direbbe a Zuckerberg?
"Gli dico una cosa: perché non compri i muri de L'Orecchietteria Banfi, il ristorante che ho a Roma, vicino al cinema Adriano? Sempre pieno, è una specie di museo banfiano, e viene gestito dai miei figli, Rosanna e Walter. I muri costano qualche milione, per te bruscolini; sono della Banca d'Italia. Li compri e me li regali. Poi prometto che serviremo 10 mila pasti ai bisognosi".
Un rilancio non da poco. Vediamo se Mark fiuterà l'affare.
"Una proposta indecente, ma neanche tanto".

Nuovi lavori in vista?
"Sì, un film-documentario con i personaggi della mia carriera che si raccontano. Lo stiamo scrivendo con il regista Mario Sesti. Non un corto né un lungometraggio, ma 'Il largometraggio di Lino Banfi'. C'è interesse in Rai".

Sembra un taglio molto verdoniano.
"Lo è. Carlo Verdone l'ho incontrato proprio l'altra sera e parlavamo di quanti soldi non abbiamo mai preso per i diritti d'immagine con cose che hanno fatto poi utilizzando i nostri personaggi". 
Cause in vista?
"Macché. All'epoca quando facevi un film con Medusa o chiunque altro, ti facevano firmare clausole che consentivano loro di fare qualsiasi cosa dei tuoi girati per sempre. Io mi salvai un po' perché m'inventai i pacchetti: Sergio e Luciano Martino mi proponevano un film di cassetta? Io dicevo: 'Te ne faccio anche tre', ma ogni tre me ne fai fare uno con un cast e un regista importante. E' così che sono riuscito a lavorare anche con Dino Risi, Salce e Steno".

In un'intervista, qualche tempo fa, Alvaro Vitali mi disse che lei in quegli anni di film scollacciati lo fece fuori. Sembra portare rancore.
"So che va dicendo queste cose. Forse s'è incazzéto perché sentiva tradita un'amicizia. Ma comandavano i produttori. Però le giuro che quando feci in tv Un medico in famiglia, per 20 anni, una vera manna dal cielo lavorativamente, feci spesso il suo nome, ma non l'hanno mai voluto perché troppo identificato con il personaggio di Pierino. Ora vediamo invece se si fa vivo Kukkembert".

Guardi Lino che se lo chiama ogni volta in modo diverso, i muri del ristorante non glieli regala.
"Non ce la faccio a dire il nome, è più forte di me. Ma quello magari è un bravo raghézzo, potrebbe essere mio nipote".

(DAL SETTIMANALE GENTE - AGOSTO 2023)

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