giovedì 31 marzo 2016

ADDIO GIORGIO CALABRESE (MA NON S'ERA DETTO «ARRIVEDERCI»?)

Il pezzo che sapevo/temevo prima o poi di dover scrivere inizia così. Perché non so come iniziarlo. E perché non vorrei metterci troppa retorica, che era la cosa più lontana dall'uomo che vi voglio raccontare. D'altra parte la retorica in queste occasioni sfugge di mano, per i giornalisti è come una cassetta di pronto intervento. In caso di lutto, togliere i sigilli e recuperare qualche frase di circostanza.
Il fatto è che per me non è morto uno qualsiasi (lui già qui, alla decima riga, mi avrebbe stroncato con una battuta, forse una pernacchia), è morto Giorgio Calabrese. Chi era Giorgio Calabrese?, dirà qualcuno improvvidamente.

Per l'Italia, forse il più grande paroliere che il Paese abbia avuto (insieme con Mogol, Giancarlo Bigazzi e pochi altri). Un gigante, autore di canzoni immortali come «Il nostro concerto» (Bindi) «Arrivederci» (Bindi-Don Marino Barreto), «E se domani» (Mina), «Domani è un altro giorno» (Ornella Vanoni). Una colonna della «scuola genovese» che s'è piegata oggi a Roma sotto il peso di 86 anni pienamente vissuti.

Per me, era semplicemente Giorgio. Un signore assai brillante e allampanato dalla risata strana e arruffata e gli occhioni sbarrati che d'estate bazzicava casa mia a Santa Maria della Versa (Pavia) sin da quand'ero piccolo. Un tipo strano dal quale ho preso il gusto per l'ironia e la fissa di mettere insieme le parole più o meno con un senso compiuto. Se ho scelto di fare questo mestiere occupandomi proprio di spettacolo, lo devo senz'altro al condizionamento ambientale di Giorgio, che dello spettacolo era la quintessenza. Conobbe mio padre Gigi, cantiniere dell'Oltrepò Pavese e suo fan dai tempi del radiofonico «Pomeriggio con Mina», e da allora non si persero più di vista. Papà si metteva lì puntuale ogni domenica col suo Geloso a cassette e un microfonino improbabile e registrava malamente tutto il programma, spanzandosi di risate per la verve colto-umoristica di questo signore ligure che aveva grande dimestichezza con la più grande cantante italiana. Un giorno gli scrisse, e Giorgio, che amava e conosceva il vino come pochi, venne a trovarlo a caccia di sapori.

Da lì in avanti a casa «dei Bagnaschi alla Madonna», come propriamente diceva Giorgio traducendo dal dialetto, fu una formidabile Calabrese Parade. Quasi mai si annunciava, anche perché la puntualità non è mai stata tra le sue virtù. Faceva blitz all'insegna del politicamente scorretto, facendoci morire di risate con una battuta per tutti e su tutti, nel mondo dello spettacolo. Che
frequentava assiduamente anche come autore per la Tv, tra un memorabile scazzo e l'altro con Pippo Baudo, col quale fece «Fantastico», alcune «Domenica in» e Festival di Sanremo. Litigavano, Pippo lo metteva alla porta, o Giorgio se ne andava sbattendola (invariabilmente) e poi in genere puntalmente lo richiamava o si riconciliavano. Perché era bravo. Troppo. Dannatamente bravo e attento al dettaglio, pur in un mood d'approccio alla vita meravigliosamente cazzaro. Un mix, come si può ben immaginare, impagabile. Lo guardavo dal mio cantuccio gonfio di ammirazione e avrei dato una mano, forse entrambe, per diventare come lui. Ogni tanto passava per portare mamma Ida dai parenti a Caorso, e lasciava in libera uscita i due figli: Christian e Alessandro, miei coetanei, avuti dalla moglie, la bellissima Annamaria Baratta, in arte Suan, con lui nella foto in alto. Per lei scrisse «Canto di ringraziamento» (da «Partido alto» di Chico Buarque de Hollanda). Anche i figli, cresciuti a Roma, erano impagabili: Christian, all'epoca attentissimo all'immagine, passava con disinvoltura da uno specchio all'altro, e Alex, più naive, ne combinava più di Bertoldo.
Un giorno, insieme con l'illustre papà firma dello spettacolo nazionale, furono ricevuti da Antonio Denari, austero presidente della Cantina “La Versa”, che amava fregiarsi del titolo di Duca. Insomma, il signorotto di un potentato locale non indifferente in un paese di 3.000 e rotte anime le cui colline vivevano quasi in toto di vitivinicoltura che incontrava il famoso autore. Alle presentazioni, così narra la leggenda, arrivarono al figliolo minore di Giorgio. «Alex, questo è il Duca Denari». Risposta del figliolo, ridente, allungando la mano: «Sì, e io so' er Fante de coppe!». Gelo in sala tra i cortigiani del Duca (che inghiottì il boccone amaro senza fare una piega, ma contraendo leggermente le labbra in una smorfia di dolore sordo) in un momento epico destinato a entrare nella storia dell'Oltrepò Pavese.


Calabrese lanciò Orietta Berti («Secondo me è la voce più bella che abbiamo», diceva), e tradusse per l'Italia praticamente tutti i grandi brasiliani. Impossibile non citare «La pioggia di marzo» e «Il disertore» di Boris Vian, entrambe riprese da Ivano Fossati. Secondo solo a Mogol per numero di brani scritti per Mina, tradusse quasi tutto Charles Aznavour, con pezzi come «Lei», «E io tra di voi» e «L'istrione», cantata poi anche da Massimo Ranieri. Sigle ne abbiamo? Hai voglia... Se quando vai in discoteca balli «Cicale» di Heather Parisi, sappi che era una cosetta sua. Se t'innamori sulle note di un classicone come «L'aria del sabato
sera» di Loretta Goggi, siamo sempre dalle parti di Giorgio, che forse s'era ispirato un po' a «Strada notturna», un pezzo tratto da un album degli oltrepadani Oliva Gessi che gli aveva regalato mio padre. Calabrese per primo portò i testi della canzone italiana, sino a lì molto ingessati, a indulgere a giochi di parole, o a termini inusuali. Una piccola rivoluzione. In «E se domani» è diventato luogo comune il famoso, ammiccante «E sottolineo se» che faceva la differenza. 

Tra le immagini che mi resteranno per sempre stampate in testa c'è Giorgio, quando sedeva sul divano in cucina sorseggiando «un bel Brut dei Bagnaschi», veniva accudito da quel folletto di zia Piera, altra entertainer mancata. Poi iniziava a far roteare quelle manone dal pollice registrato all'Fbi come arma impropria, raccontando le imprese di nani, ballerine e Dei dello spettacolo. Da Mino D'Amato sui carboni ardenti, a Giucas Casella che ipnotizzava le sue cavie in studio e ordinava a loro e al pubblico di intrecciare le dita delle mani sopra la testa, bloccandole «Fin quando lo dico io!». Seguivano puntuali migliaia di telefonate da tutta Italia ai centralini Rai e alla redazione di «Domenica in» di gente suggestionabile rimasta con le dita intrecciate. Si mettevano tutti a rispondere, Giorgio compreso, e sbloccavano dita da Trento a Catania
improvvisandosi paragnosti collaboratori di Giucas. 
Quando aveva finito lo show in cucina da noi, Calabrese bofonchiava: «Bòn, andùma», si alzava dal divano e tornava al «Prato Gaio», hotel e ristorante dal nome sul quale tutti amavamo ironizzare e che aveva scelto come dimora in Oltrepò. Spariva per un po' senza lasciare tracce. Non sapevamo mai esattamente quando e come si sarebbe ripresentato. E se ti dava un giorno e un'ora, potevi star certo che non erano quelli.
La prima volta in cui lo vidi, raccontò la storiella di un prete che portava a spasso alcuni festanti boy-scout. Finiva con il sacerdote al quale sfuggiva di mano una pesante croce e gli cadeva sul piede. Esclamazione dolente del parroco: «E per la Madonna!». Risposta in coro dei garruli boy-scout: «Hip-hip, urrà!».
«Bòn, Giorgio». Questo è il mimimo che ti dovevo. Ora insegna agli angeli a scrivere una canzone. E nel caso a tirare due saracche con un bicchiere di Bonarda barricato davanti. Non barare: so qual è la cosa che farai per prima. 




UNA PAGINA FACEBOOK PER GIORGIO CALABRESE
I Figli di Giorgio hanno creato una Pagina Facebook (si trova cliccando su questo link) aperta a tutti e dedicata all'immenso papà. Un modo per avere uno spazio web permanente dove ricordare lui e i suoi capolavori.

mercoledì 30 marzo 2016

SIMONA VENTURA * CON L'APP MEDIASET LA MANDI A CASA (GRATIS) DALL'ISOLA

Avevo appena scaricato la provvidenziale app di Mediaset per mandare a casa (per giunta gratis) con un peso di 50 democratici voti, mica bruscolini, il colonnello Simona Ventura dall'«Isola dei famosi», quando ho visto sul web il mobilitarsi di alcuni personaggi in difesa della generalessa di Cayo Paloma. 
Come riferisce Lord Lucas su TvBlog, la brava Valeria Castelli, addetta stampa della signora, si è messa comprensibilmente a capo di un manipolo di vip amici della Lady Vaga di Cayo Monzeses pronti a promuovere l'hashtag #forzasimo. Ci sono Francesco Facchinetti, Giusy Ferreri, Valeria Marini, Vladimir Luxuria ed Ezio Greggio.

Perché questi endorsement che appaiono, almeno sulle prime, un po' telefonati? Perché la Signora a 'sto giro rischia davvero, essendo in ballottaggio con lo spagnolo Jonàs Berami, attore de «Il Segreto». Fra l'altro attaccato in malo modo durante l'ultima, discussa puntata, dalla suddetta Ventura, che l'ha invitato ad andarsene a casa. Così. Tanto per far capire che lì comanda lei. E anche la povera Mercedesz Henger (l'unica che l'altra sera ha rimesso un po' in riga la sciura very aggressive) ne sa qualcosa.

La Ventura, per carattere, è da sempre una leader naturale: dove va, vuole comandare in modo assoluto, e anche le dichiarazioni che ha fatto alla vigilia della partenza per l'Honduras, oggi suonano strane: «Mi piacerebbe che questa esperienza facesse venire fuori anche una parte di me che conoscono solo i miei amici e cioè la Simona più materna, più dolce. Sarebbe una bella novità per il pubblico», ha detto a Chi. Talmente una novità, che infatti non la stiamo vedendo. E ancora: «Voglio fare gruppo, non voglio andare all'isola come una Primadonna». Prego? Simona, dai, Wanda Osiris al confronto sembrerebbe un'operatrice di call center rispetto a te in mezzo ai cocchi.

La verità è che se la Ventura di anni fa era molto adatta per condurre l'Isola, tanto da risultare simpatica, la Ventura di ieri e di oggi non è adatta per farla. O quantomeno per vincerla. Sull'Isola fame e privazioni fanno uscire il tuo vero carattere, e se il tuo vero carattere non è un po' umile e remissivo (che non significa non strategico), la tv fa da esaltatore di sapidità.
Quindi, in conclusione: non mi curo degli appelli vipparoli e torno a votare democraticamente con la stupenda, nuova app fornita da Mediaset (ma si fa anche dal sito http://isola.mediaset.it/vota/) per far tornare a casa la grinta oversize di Simona. Poi sarà un problema della dolce Alessia Marcuzzi gestire la situazione in studio per la competitività sulla conduzione, ma almeno si darà un po' di respiro agli sconosciuti naufraghi.

Del resto la Ventura là è praticamente l'unica famosa. Quindi in questa edizione nuda e cruda, che pare il «Grande fratello», risulta persino fuori posto. E mandarla a casa farà felice sicuramente almeno una persona: Cristina Parodi. Vuoi non far felice Cristina Parodi? Perbacco, siamo qui apposta.


martedì 29 marzo 2016

PRIMA DI CONDIVIDERE LINK CON NOTIZIE FALSE O MANIPOLATE, PENSACI

Mi rivolgo al pataccaro medio che circola sul web per una civile domanda.
Quando condividi sui social network (come Facebook o Twitter) link dei siti più immondi e sconosciuti, con notizie non verificate o chiaramente manipolate ad arte per diffamare qualcuno, sostenere una parte politica, screditarne un'altra o portare a casa i click di una pattuglia di boccaloni come te, non ti vergogni un po'? Un minimo di faziosità ci può anche stare (soprattutto nei commenti, ma una cosa è un commento, un'altra è una notizia), è nella natura dell'uomo, a patto che non passi per la menzogna. Non fai un buon servizio a nessuno: certo non alla collettività, e sicuramente non a te stesso, che ti presti a una figura imbarazzante. Davvero. Per uno che convinci, con altri nove passi per il più grande cretino dell'Impero.
Ma forse non te ne accorgi. Davvero non comprendo questo (auto)lesionismo. Le bufale fanno male anche a te, sono peggio del fumo passivo per il cervello di tutti. Guardati allo specchio, percepisci il tuo degrado, e pensa di smettere.
Piuttosto condividi Lercio, che almeno si sa, è Lercio, e ci facciamo tutti una risata. L'ottusità è la cosa che mi irrita di più, ma forse mi ci devo abituare.


sabato 26 marzo 2016

I TALENT-SHOW SONO IL DEMONIO? NON SEMPRE, MA POSSIAMO SOLO CONVIVERCI

Si parla molto in questi giorni di un video sicuramente coraggioso e intelligente (lo posto in fondo) nel quale Gabriele Ansaloni, in arte Red Ronnie, spara a zero sui talent-show musicali. Con molte osservazioni assolutamente pertinenti e condivisibili. Questi programmi vengono additati dal padrone di casa di «Roxy Bar» per essere: non la fortuna di chi si approccia alla musica, ma solo l'anticamera dell'oblio e della depressione; solo «grandi karaoke» e nulla più; vetrine televisive illusorie che «soffocano la musica» e spremono voci con la complicità della discografia o delle emittenti, pronte a far firmare agli artisti contratti capestro; non stimolano la creatività ma solo l'emulazione, infatti senza autori buoni alle spalle per gli emergenti non esiste futuro. La conclusione di Red Ronnie è, suppergiù, un appello: ragazzi, disertate questi programmi e cercate di emergere crescendo pian piano e facendo musica attraverso altri canali. Tutto rigorosamente vero e ampiamente risaputo non solo tra gli addetti ai lavori ma anche agli occhi del pubblico più scafato.

Bisogna dire però, per essere onesti (e soprattutto realisti) sino in fondo, che in Italia non esistono grandi vetrine per la musica. Ci sono piccoli club, programmini carbonari, occasioni di visibilità minori, concorsi canori animati più dalla passione di chi li organizza che dal reale riscontro popolare. Inoltre, bisogna fare i conti con il presente e il futuro. E il presente e il futuro, piaccia o no al buon Gabriele, sono una melassa social, la società liquida, l'esaltazione dell'autoreferenzialità un tanto al chilo, della scorciatoia multimediale. Qualcosa che puoi tentare di picconare con ostinazione, che puoi persino odiare ma che - almeno per ora - non puoi vincere. Perché un ragazzo che sgomita per «uscire» non dovrebbe servirsi di un talent, se ne ha la possibilità, stando purtroppo alle regole del gioco? È vero, uno su mille ce la fa, forse anche meno. È vero, se ti sei giocato la tua occasione e non hai funzionato (buona la prima?), poi la discografia probabilmente ti dirà addio. Una scrematura che, siamo onesti, può essere un male ma anche un bene. Non è detto che tutti debbano per forza essere destinati a cantare anziché lavorare alla cassa dell'Esselunga, per richiamare il percorso di Giusy Ferreri, che con i talent ce l'ha fatta, così come il maiuscolo Marco Mengoni o altre stelle uscite dai programmi di Maria De Filippi, come Emma Marrone o Alessandra Amoroso. In ogni caso, se uno ha talento e passione vera, anche dopo una sconfitta (discografica) insiste sino a farcela. O cerca semmai di collocarsi in circuiti minori cantando per pura passione e non solo alla ricerca del successo.

La demonizzazione dei talent, onestamente, la capisco sino a un certo punto. Anche perché c'è talent e talent: c'è la macchina da guerra di «X-Factor» su Sky, che si pone ai vertici del settore con solido professionismo e maggiore resa, e c'è il sottoprodotto meno efficace «The Voice of Italy» (Raidue), che comunque dà una seconda opportunità anche a chi musicalmente ha già alcuni trascorsi. E poi l'accademia di «Amici», che, pur restando nella logica televisiva, ha un suo rigore.
Non vorrei che questo affannarsi a dare addosso ai talent fosse un'indice più di vecchiaia, che di reale preoccupazione. Come la tenera mamma che non vuole imparare a usare lo smartphone o il papà anziano che rifugge l'uso del computer (che diavoleria!). Credo che i ragazzi oggi siano molto più assuefatti ai mezzucci dei media e al loro uso di quanto pensi qualcuno. Credo che quasi tutti abbiano la consapevolezza di entrare nel tritacarne dell'effimero, e che la cosa non li spaventi granché. Magari sbaglio, intendiamoci.



venerdì 18 marzo 2016

«ECCEZIONALE VERAMENTE» * SU LA7 VA IN ONDA LA FATICA DI FAR RIDERE

Far ridere è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai comici.
Soprattutto alla maggior parte di quelli visti in onda ieri su La7 in «Eccezionale veramente», autoreferenziale titolo che rimanda al capofila dei giudici, Diego Abatantuono, nume tutelare del pacchetto con la Colorado Film di Totti, produttore e da sempre suo compagno di scorribande.
Così, dopo «X-Factor», «The Voice of Italy», «Amici» e un numero incalcolabile di altri mini-talent settoriali, abbiamo finalmente anche quello sui cabarettisti. Obiettivamente, ne sentivo la necessità. E in attesa di uno sugli anatomopatologi, forse l'unica categoria ancora non sottoposta ad esame (non autoptico, televisivo), resto ai fatti.

E i fatti rimandano l'immagine di uno show troppo lungo, soprattutto in ragione della qualità del materiale umano proposto, condotto da un Gabriele Cirilli che ride di tutto per contratto (ma è evidente che non fa fatica neppure nella vita, beato lui), senza rendersi conto che se stai seduto a casa sul divano quella fatica la senti, eccome.

La giuria è variegata: oltre all'ospite che cambia ogni settimana (ieri il sommo Renato Pozzetto, addolcito dagli anni), ci sono Selvaggia Lucarelli, Paolo Ruffini e il già citato Abatantuono. La Lucarelli fa la sua parte con intelligenza (intanto a «Ballando con le stelle» viene criticata aspramente da gente bizzarra che è lì per farsi giudicare ma non lo accetta, come Platinette, Asia Argento e il Premio Nobel Enrico Papi) e una certa esperienza in fatto di umorismo e comicità. Che le viene anche dall'aver frequentato Max Giusti, Giuseppe Cruciani e Morgan. 
P. S. Questa faceva ridere? Se sì, ditelo agli autori di «Eccezionale veramente».
Gli altri due sono un po' troppo democristiani, benevoli, soprattutto Diego. Ma l'inedito Ruffini serio, professionale e poco cazzaro convince di più perché sfoggia la sua onesta competenza come talent-scout di cabarettisti.

Ci sono poi tanti, troppi tagli (mal fatti) nel montaggio, che penalizzano soprattutto i contrasti tra i giurati, forse più divertenti delle esibizioni. Purtroppo non lo sapremo mai. E infine i comici, molti dei quali non sanno, o non hanno capito, che far ridere è una cosa troppo seria... ecc. ecc.

lunedì 14 marzo 2016

ANDY GARCIA PER AVERNA * QUANDO LO SPOT SI FA AMARO

Non bastava Bruce Willis monoespressivo che insegue il segnale di Vodafone («Prende anche qui»); non bastava Antonio Banderas con il suo «biscottone inzupposo» che fa gola alle casalinghe; non bastava quel tonno (parlo di recitazione, non di prodotto) vista mare di Kevin Costner. Ora la pubblicità italiana si è bevuta anche un mio mito vero: Andy Garcia, da ieri in onda in tv con lo spot dell'amaro Averna, girato a Palermo da Emanuele Crialese.

A capotavola, il barbuto Don Salvatore (Garcia) dà consigli ai suoi ospiti per assaporare «Il gusto pieno della vita». Consigli che non si possono rifiutare, naturalmente. Perché come fai a rifiutare, in Sicilia, i consigli di Don Salvatore? Poi finisce che della vita non senti più il gusto. Si ammicca un po', insomma.
E se la saga degli attori hollywoodiani che vengono da noi per rimpinguare il loro conto corrente continua implacabile, vedere Andy mi fa male. La pubblicità non è il demonio, per carità, ma soffrirei mortalmente anche se lo facesse un Edward Norton, per esempio, perché li metto più o meno allo stesso livello. Per fortuna ancora lontano dalle nostre amate sponde pubblicitarie.

Andy, non so se riuscirò a perdonarti. Quindi ho deciso che un giorno o l'altro ti chiamo e ti rifaccio tutto il monologo di «Ocean's Eleven», quando nei panni di Terry Benedict ricevi la telefonata di Brad Pitt che ha appena rubato 163 milioni di dollari nel tuo casino. E ti sfoghi da par tuo.

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