martedì 28 maggio 2013

MIAMI BEACH * ABBORDATO DA UN CUBANO IN ACQUA DAVANTI A OCEAN DRIVE

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo, alla terza settimana. Un pomeriggio qualsiasi, in spiaggia, fra la tredicesima e l'ultimo tratto di Ocean Drive. Ricordo con assoluta precisione la posizione perché queste cose noi ragazzi di campagna non le dimentichiamo facilmente. Ero entrato in acqua da poco, e nuotavo sbuffando placidamente vicino a riva, come un'otaria che cerca sane distrazioni. Confortato da quell'acqua così calda, nonostante le sue oceaniche pretese di grandezza, e dalla vista parziale dello skyline di Miami Beach: uno strano contrasto fra moderni, imperiosi grattacieli e timide case color pastello. Rannicchiato, mi concedo una mezza riemersione da quelle acque sulle quali sin da piccolo avevo sempre sognato di poter camminare. Pochi istanti di distrazione, ed ecco che mi si avvicinano due ragazzotti cubani sulla trentina. Entrambi non certo alti ma dal fisico prestante, uno pressoché muto, col capello lungo, l'altro ciarliero e dalla corta chioma. È lui che attacca discorso: "Meglio stare qui vicino a riva, no? È più sicuro", mi dice con un mezzo inglese-mezzo spagnolo stentato, che comunque capisco, anche perché se per anni ho capito quel che diceva Aldo Biscardi, non vedo perché non dovrei capire lui. "Oh, Yes", rispondo annuendo con un mezzo sorriso di circostanza e quella punta di diffidenza tutta oltrepadana. Il brillante interlocutore passa quasi totalmente allo spagnolo: "Ma tu, da dove vieni?", dice mentre il suo amico mini-pony lo guarda e mi guarda con un sorriso un po' ammiccante. "Dall'Italia", faccio io. "Ah, Italia, bella Italia. E dicono che tutti gli italiani sono sexy...". "Sì, può essere, ma non è sicuramente il mio caso", dichiaro, calando un rapido due di picche che in Florida farà molto parlare. "Eh, perché no? Perché no?", insiste Cuba libre con fare mellifluo. "Fidati, non è il mio caso", sono costretto a rimarcare mentre mi sposto a nuotare un po' più in là. "Comunque stai attento, perché qui in giro ci sono molti pescecani...", mi dice ridacchiando come monito di congedo. Rifletto sul fatto che tutto sommato due li ho appena evitati. E senza neanche vedere le minacciose pinne uscire dall'acqua.
Ora, chi mi conosce lo sa: sono sempre stato una persona disponibile e il più possibile educata. Ma non così disponibile e così educata da mettere a disposizione parti di me tuttora inviolate. A volte mi si chiede un po' troppo, perdio. Soprattutto all'estero.
Detto questo, mi piace notare come alla mia tenera età vada ancora via come il pane. Sono grosse soddisfazioni. Mi lascia un po' perplesso solo questo ampliamento della clientela. Chiederò agli americani, che sulla customer satisfaction la sanno lunga. Probabilmente meno lunga dei cubani.

mercoledì 22 maggio 2013

FRASARIO ESSENZIALE PER AFFRONTARE UN CORSO D'INGLESE IN AMERICA

Se hai già fatto almeno un corso d'inglese in America, lo sai perfettamente. Se non ti è ancora capitato, è bene che tu conosca il frasario essenziale per affrontare un'eventualità come questa, e tutti i suoi chiaroscuri.
I corsi d'inglese, a meno che non siano buone ma fredde e costose lezioni one-to-one, ti riproiettano immediatamente in un clima da tempi supplementari della tua adolescenza: classi miste, compiti da fare, piccoli jokes con i compagnucci, quella carina della classe, quello che sta sulle balle al mondo intero, e convenevoli mattutini che si svolgono secondo un rigorosissimo copione. Da non trasgredire mai, pena l'amputazione delle falangi e la gogna in sala computer. Peraltro sempre meno utilizzata perché tutti ormai sono provvisti di smartphone. Si cercano piuttosto ovunque, improvvisandosi rabdomanti, reti wi-fi aperte, come nei sempre ospitali caffè della catena Starbucks, dove allegri scrocconi bivaccano per ore navigando senza ritegno e telefonando in capo al mondo con Skype al costo di un solo cappuccino. Ask to your Barista.
Per ragioni ancestrali ignote a tutti ma accettate come convenzione, la prima, fondamentale domanda che tutti si rivolgono reciprocamente senza soluzione di continuità, nelle scuole d'inglese in America, è: "Where do you come from?". C'è qualcosa - forse un'antica maledizione - che impone agli iscritti di sapere e chiedere continuamente e ossessivamente al prossimo da dove provenga e, soprattutto, quanto tempo si fermi lì ("How long do you stay here?"). Questa chiave di lettura consente, da lì in avanti, di sfoggiare una miriade di sapidi lazzi e luoghi comuni sui rispettivi paesi. Dall'italiano che gesticola, al francese polemico e snob; dalla brasiliana di Rio che si distingue per l'accento unico ed irripetibile da tutti i brasiliani del mondo (quest'anno c'è una giornalista carioca che con questa storia ammorba chiunque incontri senza accorgersi di averla già raccontata più volte alla stessa persona; sembra il giorno della marmotta, e c'è già chi ha proposto di abbatterla alle macchinette con frecce al curaro), al tedesco un po' pirata, un po' signore, un po' Gestapo. C'è persino un kazako che ogni giorno maledice il giorno in cui nelle sale è uscito "Borat", giusto per capirsi.
Le due domande sopra esposte sono la base pizza di qualsiasi scuola, l'argomento principe di conversazione quotidiano, ed equivalgono al sorrisetto smorto e alle chiacchiere sul meteo in ascensore da noi in Italia. I più svegli le rivolgono con estrema velocità subito a chiunque, mettendolo al tappeto, oppure svicolano per corridoi aspettando che qualcuno li incontri e le rivolga a loro, in una sorta di duello modello far west. Vivere o morire a Miami. Sono consentite piccole varianti e aggiustamenti durante lo sviluppo del percorso di studi. Avremo per esempio: "How long do stay more?" che consente al "richiedente" di mettersi a posto la coscienza formulando la domanda obbligatoria, e al "rispondente" di aggiustare il tiro riducendo di volta in volta il numero delle settimane a disposizione. Il tempo scorre ingrato, non dimenticare di aggiungere opportuna espressione di disappunto, oppure parole come "Unfortunately", molto apprezzate per via del loro impiego infrequente. Si narra che il record, tuttora imbattuto dal '94, sia detenuto da un giovane tirolese che l'aveva fra l'altro proposto in inedita versione jodler: 1 secondo e 12, non omologato per assenza di testimoni.
Questi due certo interessanti ma incessanti interrogativi partono dal momento dell'arrivo alla school, quando vieni ricevuto al bancone dalla squittente segretaria americana di turno. Anche se l'anima dannata approfitta del suo inglese fluente per rivolgertele alla velocità della luce e a bruciapelo, dopo depistanti giri di parole con i quali medita di farti cadere subito nel suo tranello. I più scaltri sorridono senza parlare porgendo i documenti (sguardo di diffidenza). D'altra parte siamo gente di mondo e non sarà certo una post-pischella a stelle e strisce a metterci nel sacco. Quelli che ostentano maggiore confidenza con la lingua si spingono sino a varianti (peraltro sempre sconsigliate dal protocollo per via dell'aumento del livello di difficoltà) come "How long have you been here?". Lo fai a tuo rischio e pericolo, insomma. Può andarti di lusso, con ovazioni da stadio, oppure puoi rimediare una figuraccia meschina che ti accompagnerà per il resto dei tuoi giorni.
I meno avvantaggiati, per via delle difficoltà fonetico-grammaticali, sono gli studenti orientali, che devono la loro fama di persone più riservate e schive esclusivamente alla difficoltà di pronunciare le due domande rituali nelle scuole di inglese. Un annoso problema senza soluzione. Coreani, giapponesi e cinesi infatti sarebbero dei pazzerelloni irriducibili che manco a Zelig, se la loro immagine non venisse costantemente danneggiata da una vita da questa maggiore lentezza nell'apprendimento e nell'elaborazione delle due questions fondamentali. Non a caso compensano fermandosi in America a studiare per intere ere geologiche. Quando tornano in patria, la lingua non la sanno parlare e i parenti non li riconoscono più. Ma se ti sbagli a domandare loro da dove provengano e quanto si fermeranno ancora lì, tengono un discorso (totalmente a braccio) di almeno due ore.

martedì 21 maggio 2013

MIAMI BEACH * AMO L'AMERICA (ANCHE) PERCHÉ...


Amo l'America (anche) perché ha tanto da dire e niente da raccontare. Una rassicurante semplicità senza sfumature che si scambia facilmente per piattezza, e che forse lo è. Ma ha davvero importanza? Amo l'America perché non ha la pretesa di farti credere di essere qualcosa di diverso da questo. D'altra parte noi, a furia di complicarci la vita, come siamo messi? Amo l'America perché non si nasconde dietro un dito. E se lo fa al massimo è quello medio.
Amo l'America perché qui puoi permetterti il lusso di comprare un telo mare con impressa la bandiera a stelle e strisce e stenderti sul bagnasciuga senza sentirti (troppo) coglione. E se hai questa percezione, è solo un problema tuo, dal momento che tutti lì attorno lo considerano perfettamente normale, visto come si presentano in spiaggia. È il Paese dove stranezza ed eccesso diventano normalità conclamata. Proviamo a immaginare che cosa succederebbe da noi, ad Alassio o a Riccione, a Gallipoli come a Stintino, se chiunque, italiano o straniero, prendesse posto sulla battigia disteso su una spugna raffigurante il tricolore. Come minimo gli farebbero un Tso, o lo guarderebbero con la compassione che si riserva ai casi più disperati. Forse si beccherebbe anche una denuncia per vilipendio alla bandiera e poi finirebbe in uno speciale di Porta a porta con la Santanché, la Mussolini, Fassino e Mannheimer. Qui, no. Questa è la terra della stravagante normalità. Un posto che ti fa sentire anche maledettamente al sicuro, perché i guardaspiaggia di Miami, i famosi Baywatchers che stazionano nelle leggendarie torrette color pastello, escono preoccupati e fischiano appena un bambino si allontana anche di pochi metri dalla riva con condizioni di mare che da noi sarebbero ritenute di calma piatta. Il bimbo torna indietro ubbidiente. Il problema è che il servizio di guardaspiaggia finisce alle 6.30 p.m. precise. E se alle 6.35, mentre il bagnino sta smontando, lo stesso frugoletto affoga fra atroci sofferenze, beh, non è più un problema suo. Questa si chiama serietà. Altro che Pamela Anderson. Ci sono orari precisi anche per lasciarci la pelle, e vanno rispettati. È andata meglio - si fa per dire - a un ragazzo che l'altro pomeriggio percorreva il lungomare di Ocean Drive su un SegWay, uno di quegli strani trabiccoli elettrici a due ruote dove si viaggia in piedi, da soli, leggermente inclinati. Seguito dalla sua ragazza, anche lei motorizzata, stava facendo bonariamente il bulletto per farsi bello. Una distrazione, cade e si frattura la caviglia davanti ai miei occhi. Un massacro. I soccorsi arrivano dopo 10 minuti, ed è un camion dei pompieri. Però con tanto di barella.
La maggior parte della gente in spiaggia se ne sta appollaiata a ustionarsi sui teli mare. Pochi ricorrono ai lettini, e gli ombrelloni tradizionali volerebbero inevitabilmente via, a causa di colpi di vento frequenti e più o meno improvvisi. In compenso alcune diavolerie, come quella brevettata dai Boucher Brothers, vengono in aiuto. Questi sacripanti hanno concepito una sorta di semi-tenda (un po' come quelle piazzate all'ingresso di alcuni negozi da noi) che si apre a spicchio per proteggere dal sole: ha un'armatura in metallo, alcuni pesi che la ancorano alla sabbia, e si apre a 90 gradi preservando dal sole. Può coprire testa e busto di due persone coricate su un letto da spiaggia matrimoniale, che viene opportunamente incassato sotto questo trabiccolo, oppure può ospitare una persona seduta e una coricata, entrambe perfettamente all'ombra. E il vento viene gabbato definitivamente, grazie anche a una traforatura che evita l'effetto barca a vela. Ogni mezz'ora passa un aereo che fa garrire al vento tanto di striscione che informa meticolosamente sul Dj ingaggiato per la serata stessa da una delle tante discoteche locali. Come se in questa musica martellante, in questa marmellata di bassi senza soluzione di continuità, si percepisse qualche differenza.
In compenso, a South Beach, non intercetti un topless neppure col binocolo. Nelle spiagge più ricche, quelle dei mega hotel sul lungomare (come l'elegante Delano, a dire il vero più noto in Italia che in città, il Ritz o l'emergente Shorecrest), così come in quelle più popolari che si affacciano su Ocean Drive e i suoi vecchi, piccoli hotel più o meno ristrutturati, si fa uso solo di due pezzi o di costume intero. Non esiste compromesso. Puoi percorrere tutta la costa senza trovare uno straccio di scostumata con le tette al vento. E se ne trovi una, è protetta dal WWF più della foca monaca. Credo che l'amministrazione locale stia pensando di importarne una quota da Formentera. E immagino anche la straziante sofferenza delle nostre starlette che svernano a Miami finendo puntualmente - tutto l'anno - nelle fotogallery del Corriere on line, nel dover sopportare questa usanza locale così barbara. Magari erano rifatte di fresco, appena tagliandate, pronte per la copertina di una rivista di gossip. E invece niente: qui esibirle non è polite. Immagino sia davvero terribile essere florida in Florida e non poterlo mostrare...

giovedì 16 maggio 2013

MIAMI BEACH * UNA NOTTE DA LEONI FRA CATALINA, MANSION E BAMBOO


Che la serata potesse prendere una strana piega, ho iniziato a capirlo nel primo pomeriggio, dopo la fine delle lezioni, quando il mio collega mi ha avvicinato con aria divertita, dicendomi: "Che cosa si fa stasera? Andiamo a una festa con i pischelli della scuola? Sai, c'è un tipo tedesco simpatico, Alex, col quale parlavamo in pausa, che ha invitato anche noi a questo party; si va in un paio di locali, pare, saremo una decina... ci fidiamo?". "Ma è uno della tua classe?", gli dico. "No, l'ho visto oggi per la prima volta, ma sembra alla mano". Esprimo qualche perplessità (a scatola chiusa) per due ragioni: 1) l'ultimo tedesco più o meno simpatico che ricordi è Horst Tappert, l'Ispettore Derrick, che si è scoperto di recente essere stato una colonna delle SS. 2) istintivamente mi fido poco dei gentili senza apparente motivo; quelli che non ti conoscono neppure e ti invitano caldamente a una bella festa, per esempio. Ma voglio - devo - pensare positivo, come Jovanotti, e aderisco con entusiasmo. Seratona con i pischelli? Perché no!? L'accendiamo.
L'appuntamento è alle 9.30 p.m. sotto la scuola. Ci presentiamo in 8, compreso l'ormai leggendario Alex, trentenne mesciato che parla un discreto inglese, sorride molto e ostenta confidenza con tutti. Soprattutto con chi non ha mai visto. Il crucco dal cuore d'oro guida il piccolo plotone in una breve passeggiata lungo la Lincoln verso l'hotel Catalina, sulla Collins, la nostra prima tappa.
Il Catalina è un piccolo hotel ristrutturato che ha la fortuna di essere piazzato proprio di fronte al Delano, uno dei must della vita notturna di Miami. Posizione invidiabile, scarsa notorietà, vive inevitabilmente di luce riflessa. All'ingresso un tipo piccoletto che ha l'aria di conoscere Alex (da questo momento, per noi, "il tedesco napoletano") sin dalle elementari, spara il prezzo a cranio: 40 dollari. Senza condizionale. E poi ci piazza al polso un braccialetto rosso, come nei villaggi turistici. Il nostro disappunto per il prezzo, non banale anche per Miami, viene attenuato dalla lettura di un rassicurante cartello lì accanto: "All you can drink". In pratica, non c'è limite alle consumazioni al bar, dove veniamo presentati a una riccioluta mulatta filiforme che sarà anche carina, ma che sulle prime (e anche sulle successive) non pare ferratissima nella nobile arte di preparare cocktails. Ci viene affidato un bicchierino di plastica trasparente con micro cannuccia nera e alcune minacciose scritte sul banco avvertono: "Non perdere il tuo bicchiere o smetteremo di servirti da bere". Non si fa menzione della cannuccia. Rido amaramente, anche perché una scritta simile non la trovi non dico nei peggiori bar di Caracas, ma neppure nell'ultima discoteca di Rimini. Anzi, soprattutto a Rimini. Ma come, mi fai pagare 40 dollari d'ingresso in un posto di serie B e poi vuoi che adotti un bicchierino di plastica per tutta la serata? Tutto questo a Miami? Non mi parte un oltrepadano "vadavialcü" perché so che sarei capito solo da alcune minoranze oggi scarsamente tutelate. Ordino un Cuba libre, il bicchierino si riempie soprattutto di ghiaccio, ma la ragazza mi serve un drink più che dignitoso. Vabbé, dai, almeno si beve bene. Avevo parlato troppo presto: al secondo Cuba, che arriva di lì a poco, la Donna Summer del cicchetto mantiene la stessa Coca alla spina, ma passa a un Rhum di terza categoria. Trucchetti. Un Italian Job de noantri. Al terzo bicchiere le richiedo il primo Rhum, ma dolente mi spiega che quella marca è finita e che i superalcolici nella lista dell'all inclusive sono solo 7, come i peccati capitali. Tutto il resto al bar va pagato a parte. Mi consolo con una tequila e Coca sperimentale che non sfigura rispetto alla brodaglia spaccafegato dello step precedente.
Mentre con i ragazzi (una coppia di tedeschi e alcuni francesi davvero simpatici) ci intratteniamo su un balconcino affinando il nostro inglese, quasi allo scoccare della mezzanotte, arriva l'ora X. Di fronte al Catalina, sulla Collins, spunta un grande pullman scuro della South Beach Party Tours, già mezzo pieno di predestinati allo sballo. Gente tutto sommato elegante, non teppaglia. Anche noi otto pischelli saliamo a bordo baldanzosi. Le porte si chiudono. Enjoy. Non sapevo di avere appena iniziato un viaggio di 35 minuti che si sarebbe rivelato l'esperienza della mia vita più vicina all'idea di deportazione. Dopo altre due soste per caricare sventurati, il pullman - senza posti a sedere, luci interne soffuse rosse e blu, solo degli scintillanti pali modello lap dance per reggersi in piedi, e musica quasi a palla - risulta pieno all'inverosimile. Calca e sudore a livelli intollerabili e prime saracche in tutte le lingue del mondo sono il piacevole menù. L'autista ha anche una guida brillante che mal si concilia con la situazione di evidente precarietà. Io sono all'oscuro di tutto quel che succederà dopo, come un sequestrato ma senza cappuccio. Sdrammatizzo urlando ogni tanto: "Next stop, Auschwitz!", e asciugandomi il naso che gronda autentico sudore sul braccio di una ragazza americana che si regge al mio stesso palo (no allusioni, please) e che ha pensato bene di piazzarmi l'arto proprio davanti agli occhi. Errore madornale. La mia vicina d'oltralpe, fra un mancamento e l'altro, assicura che stiamo andando al Mansion, "la miglior discoteca di Miami". Dopo molti, interminabili minuti, il carro bestiame si ferma nelle vicinanze del Mansion, e quasi tutti scendiamo, grati ognuno alla propria divinità per il fatto di essere ancora vivi e a destinazione. Errore da pricipianti: non tutti vanno al Mansion. Buona parte di noi è costretta a risalire sul pullman per affrontare la seconda e ultima tappa: il Bamboo. Il premuroso Alex, in breve, ci aiuta a ritarare la classifica dei migliori club di Miami, che è stavolta - ovviamente - guidata dalla discoteca dove stiamo per andare noi, non gli altri sfigati. Il Mansion? Ma chi se lo fila? Bamboo tutta la vita.
Davanti all'ingresso, Alex ci fa aggiungere un braccialetto giallo fluorescente a quello rosso già in dotazione, e ci mostra l'accesso privilegiato. In pratica, grazie a quello entriamo saltando la breve coda. Sulla porta il buttafuori calvo squadra me e il mio collega e ci chiede in inglese l'ID, il passaporto. Lo vede, rosso fiammante, e aggiunge, in perfetto italiano: "Di dove siete?". "Di Milano...". "Ah, allora siamo vicini: mì su de Zéna"...
Superato in breve lo stupore per il buttafuori al pesto, entriamo nel magico mondo del Bamboo. Nonostante sia mezzanotte e mezza, praticamente apriamo il locale, popolato quasi solo da barwoman indaffarate. Il posticino è effettivamente ben tenuto, ricavato all'interno di un vecchio cinema da non più di mille posti. Maxi schermo led e banco del Dj al posto dello schermo di proiezione, ampio privée e zona bar sottostante, la platea trasformata in pista da ballo, e spazio per eventuali appuntamenti live nella piccola galleria. Che stasera rimane vuota, ma completamente attrezzata di strumenti musicali. Il volume è già altissimo, anche perché tutto il locale è disseminato di casse dall'inaudita potenza nascoste anche nei posti più impensabili. Mi sento come Wanna Marchi a una convention della Guardia di Finanza: un tantinello fuori posto. Ma la grande beffa continua, e l'ultima cosa che vorrei - a questo punto - è sottrarmi al finale.
Alex l'Ariete ci invita a esaminare la ricca lista (speciale, retroilluminata, ottima idea regalo) per ordinare eventuali bottiglie al tavolo. La più economica è un Rhum da 350 dollari; la più cara, un set da 6 bottiglie di una marca di "champagne" americano pressoché sconosciuto in Italia che ti assicuri alla miserabile cifra di 8.500 dollari. Se ordini una bottiglia sola, te la porta la super topolona del locale: una Venere nera in costume intero che lascia senza fiato. Si ferma un po' a fare pr, ti stappa la bottiglia, si fa fotografare e fotografa tutta la combriccola, e poi se ne va. Se ordini il fantozziano super set da 6 di champagne (c'è anche una versione per non abbienti da 7.000 dollari, praticamente regalata) arriva la Venere nera senza nulla in mano ma accompagnata da tre topoline di gran pregio recanti due bocce (si parla sempre di bottiglie) da litro ciascuna. Il quartetto entra in scena improvvisando un balletto. Se il titolare del Bamboo sapesse che per la stessa cifra, anche meno, potrei portare tutto l'ambaradàn da solo coreografando al contempo perfettamente "La morte del cigno", credo che mi avrebbe già arruolato in squadra. Lo considero comunque un ottimo piano B per chiunque, fateci un pensiero.
Facciamo capire ad Alex che tutte le proposte, compreso il taglio minimo da 350 dollari, ci sembrano - come dire?- un po' penalizzanti, ma quella generosa sagoma germanica ha già pronta la soluzione: "Non c'è problema, ragazzi: facendo il mio nome vi daranno una bottiglia di vodka a 150 dollari". Ovviamente a questi prezzi modello "chiude, liquida tutto" la topolona te la scordi, ma i ragazzi del gruppo accettano il deal. A me non piace la vodka. E neanche Alex, per dirla tutta. Quindi dopo aver ballicchiato un po' (il volume dellla disco-house-techno-progressive del Dj Captain of Industry ormai è insostenibile, su alcuni bassi vibra persino la cistifellea, tanto che alcuni ragazzi scafati in pista portano provvidenziali tappi per le orecchie) me ne sto appoggiato a un cancelletto che conduce al privée open air a bearmi di questa umanità in trappola. C'è un po' di tutto: dalla coppia chiattona/esibizionista che limona come se non ci fosse un domani (e forse non c'è), a una cubana sui 35 stimati, sesta di reggiseno, che fuma il sigaro maliziosa appoggiata al banco del bar. L'ammiccamento del sigarone devo ancora capirlo... E poi tanti pischelli, impegnati in pista nella legittima teoria dello struscio danzereccio. Che nasconde tante aspettative spesso disattese. Le cubiste sono quattro, autentiche professioniste del settore, che si muovono come automi, ma l'inquietante numero centrale della serata arriva verso le tre: in pista fra la gente trova posto un performer che indossa un costumone finto metallo laccato bianco stile Predator. Spaventa tutti per un po', poi viene cacciato da due pulzelle che salgono sui cubi imbracciando altrettanti enormi pistoloni che sputano fumo e coriandoli. Non si può riprendere la scena con lo smartphone perché i gestori del locale vogliono evitare che il mini show finisca su Youtube. Capirai...
Mentre contemplo il mostro che se ne va, succede il miracolo: all'improvviso mi transita accanto la Venere nera, l'inarrivabile regina del Bamboo; quella che non degna essere umano di uno sguardo a meno che non strisci la carta di credito almeno per il tappo da 350. La Naomi de-incazzosizzata passa, si volta, mi guarda reclinando leggermente il capino in un sorriso dolce e affettuoso, e mi sfiora il braccio delicatamente, per tre volte. Io la guardo, ricambio il sorriso, le faccio l'occhiolino e scuoto la testa in segno di diniego. L'invidia accanto a me è palpabile. Che cosa avrà mai più di noi questo buffo italiano sovrappeso per avere meritato tanto? Perché la magnifica preda dovrebbe interessarsi proprio a lui? Certo che la vita è ingiusta e ingrata... Non ha neppure un Rolex al polso, né un Ferrari o un Lamborghini parcheggiati all'ingresso. E poi, diamine, quali donne magnifiche frequenterà in Italia uno che si permette di dire no a una femmina di questa portata?
Li lascio macerare nell'invidia più cupa. Anche perché spiegare loro che quel sorriso e quelle languide carezze erano il risarcimento per un pestone non banale che la distratta dea aveva assestato all'alluce del mio piede destro, non farebbe curriculum. A volte le cose sono molto, molto più semplici di come ci sforziamo di interpretarle.

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