venerdì 24 luglio 2020

ROMAGNA * RAOUL E MIRKO CASADEI IN PANDEMIA: "ANDRA' TUTTO LISCIO"

Cesenatico. Il patriarca Raoul Casedei, padre di Mirko, con la moglie Pina.
Se cercate un piccolo paradiso in tempo di pandemia, dovete andare a Gatteo Mare, nel cuore della Romagna. Loro lo chiamano «Recinto di Casa Casadei», ed è un grande spazio con annesso giardino sul quale si affacciano tre ville: quella principale di Raoul, il capofamiglia, che sta al piano terra con la moglie Pina, napoletana d’origine; e che se alza la testa saluta la figlia Carolina, piazzata al primo piano. Un tempo tutta la ruspante ciurma abitava lì. Poi, lì accanto, c'è quella dell’altro figlio, Mirko, che abita sotto ma che sopra ha piazzato la figlia Asia, con relativa famiglia. E infine quella della terza figlia del Re del liscio, Mirna.
«Quest’ultima struttura» racconta Carolina «la costruimmo in parte col compenso de “L’Isola dei famosi”! Fu il modo per convincere Raoul a partecipare. In realtà noi abbiamo insistito anche perchè aveva compiuto 70 anni, e un uomo quando compie 70 anni può andare in crisi. Lui ha sempre avuto paura dell'aereo, e arrivato là si è addirittura tuffato in mare dall'elicottero!».
In questo spazio verde ogni ferragosto, tra frizzi e lazzi ma soprattutto tra lambrusco e manicaretti, si tiene il festone di compleanno del boss, che presto ne compirà 83. Questi tempi balordi ci hanno tolto parecchi frizzi e molti lazzi, ma vuoi che i Casadei non si adeguino alla loro maniera? «Siamo cinque famiglie» dice il patriarca «separate in altrettanti nuclei, all’interno dei quali ovviamente non è previsto l’uso di mascherine. Se qualcuno deve interagire con persone degli altri gruppi, spuntano sia quelle, soprattutto in zona cucina, sia il distanziamento sociale di almeno un metro, che viene sempre mantenuto. Ne ho viste di tutti i colori nella mia vita, e adesso affrontiamo anche il Coronavirus mettendo in campo quei valori che ho sempre cantato nelle mie canzoni: la famiglia, la tavola grande, la terra, il prato verde, la semplicità». 

Nel recinto vivono 14 persone di ogni età, 4 cani e le galline del pollaio, che danno uova fresche; non mancano il lievito madre, un albero di ogni frutto, tanti fiori e un ricchissimo orto biologico che coltiva Raoul personalmente. Lui e Pina sono sposati da 57 anni, e guardano con amore i nipoti, figli dell’ultimogenito Mirko, da 20 anni a capo dell’Orchestra Casadei. A 40 anni Mirko è diventato nonno e Raoul bisnonno e oggi, 7 anni dopo, in piena pandemia, lo sono diventati per la seconda volta. Il 25 marzo è nata Adele, che si chiama come la mamma di Raoul. Bingo.
«Ci siamo sempre rialzati» prosegue Casadei «e lo faremo anche questa volta, con tutta la grinta e la passione che distingue noi bravi romagnoli. Nel mio libro “Bastava un grillo per farci sognare” parlo della guerra vista dai miei occhi di bambino. Avevo 8 anni e racconto che il giorno della liberazione ho distrutto il busto di Mussolini a colpi di badile! Poi il 68, l’arrivo del turismo, e le mie canzoni che facevano da colonna sonora delle vacanze. L’talia è rinata».

Nel 1980, al culmine del successo, Raoul ha smesso di esibirsi dal vivo con l’Orchestra Casadei (pur continuando a incidere dischi), e nel 2000 ha ceduto lo scettro di re del ballo italiano al figlio Mirko. Che commenta: «Noi siamo positivi, lo dico nel senso migliore del termine. Oggi la parola può essere equivocata. E anche se siamo fermi, con l’affitto di tre capannoni da pagare, con una band di 8-9 elementi,  cinque tecnici e tutto l’indotto a casa, voglio essere ottimista e pensare che comunque riusciremo a superare questa situazione».
Per regalare spensieratezza in un momento buio, Mirko ha creato un’orchestra parallela stravagante, i “Casadei Social Club”, che sulle note di “Simpatici italiani”, un vecchio successo di papà Raoul, mette assieme la tromba jazz di Paolo Fresu e il rap di Frankie Hi-NRG MC, ma anche la rainbow music di Kid Creole & The Coconuts, il pop d’autore di Simone Cristicchi, la straordinaria voce di Silvia Mezzanotte, il sound dei Quintorigo fino ai ritmi irlandesi dei Modena City Ramblers. Il progetto è stato, ovviamente, creato a distanza per raccogliere fondi a favore della campagna “INSIEME SI PUÒ, l’Emilia-Romagna contro il Coronavirus”. 
Nel recinto dei Casadei si esce a fare la spesa a turno, uno per tutti. Denis, il compagno di Asia, è pescatore e rifornisce la truppa di cozze di Cervia e pesce fresco. Il compagno di Mirna, Mirco, commercia frutta fresca e porta cestini di fragole e altro. Nell’orto biologico di Raoul c’è di tutto: asparagi, patate, insalata, carciofi, spinaci, porri, scalogno, cipolle… La figlia primogenita, Carolina, e il compagno Lele, titolari del brand di Piadinerie “CasaDei Romagnoli” preparano invece menù golosi. La moglie e la figlia di Mirko, Sabrina e Asia, sfornano torte e preparano gelati coi limoni coltivati da Raoul. Mirna, che ha lanciato l’home-staging in Italia ed è tutor nella trasmissione «Detto Fatto» e volto Rai nel suo settore, si sta dedicando alle consulenze on-line guidando a distanza le donne italiane nel restyling della loro casa.
L’ultima bottà di ottimismo la dà il Capo supremo: «Sono certo» dice Casadei «che quest’estate tutti torneranno in vacanza nella nostra Romagna Capitale e gli operatori turistici saranno pronti ad accoglierli e a proteggerli. Tanti ripetono da tempo: andrà tutto bene. Io non posso che dirvi invece che andrà tutto Liscio. Credetemi».


(DAL SETTIMANALE OGGI - MAGGIO 2020)

CORONAVIRUS * UNA FAMIGLIA DI BERGAMO TRAVOLTA DAL DRAMMA DEL COVID-19

«Non voglio farmi compatire, né finire sui giornali. Vorrei salvare vite, far capire che servono mille tamponi, soprattutto ai sanitari, altrimenti non ne usciamo più. Vivo chiusa nella stanza da letto della mia villetta con la febbre che un giorno sale e l’altro scende, e vedo mio marito Simone e i miei due figli dalla finestra, in giardino. Li tocca con i guanti di gomma e per dare da mangiare a tutti ha imparato persino a cucinare. Non so neppure se sia positivo. Se si ammala lui, come faccio?».
Daniela Lupini, 36 anni, vive a Bolgare, comune di 6.000 anime della provincia di Bergamo, martoriata dalla pandemia. Ha il Covid-19, «una polmonite interstiziale con due grossi focolai» e (nonostante i tubicini collegati 24 ore al giorno alla bombola d’ossigeno) parla con una foga inarrestabile, inframmezzata a crisi di pianto repentine, che spuntano dal nulla e poi altrettanto velocemente scompaiono. Soprattutto quando ricorda papà Antonio, 69 anni, morto di coronavirus al San raffaele di Milano.

Daniela, com’è rimasta contagiata?
«Da mia suocera, che lavora in una RSA a Bergamo, dove sono morti i primi pazienti Covid non verificati. Lei l’ha trasmesso ai bambini, Stella e Andrea, di nove e tre anni, e loro a me. Mio padre invece era in vacanza ad Alassio, dove c’era qualcuno febbricitante. Sempre stato sanissimo, con una lieve demenza. È via via peggiorato, con il medico di base irrintracciabile. Il 112 gli ha diagnosticato prima una bronchite, poi, dopo un ulteriore peggioramento, è stato portato al San Raffaele. Dov’è morto solo in un letto d’ospedale». 

Intanto lei?
«Dopo un’odissea tra febbre e guardie mediche, grazie alla chat delle amiche ho trovato una persona gentile che aveva il turno al pronto soccorso di un altro paese, e mi ha portare a fare il tampone e una Tac, che altrimenti non avrei mai fatto. La mia vita non può essere stata salvata dal piacere personale di un medico che ha infranto la legge. È inaccettabile».

Ha scelto lei di restare a casa?
«Sì, anche perché posti per il ricovero non c’erano, ma l’avrei comunque rifiutato: avevo comprato un saturimetro, lo strumento per vericare l’ossigenazione del sangue. Poi è iniziata una lunga odissea per procurarmi la bombola d’ossigeno. In tutte le farmacie della Bergamasca non trovano più e te la deve assegnare l’ATS, ex Asl. Qui sono tutti a casa malati con, tra virgolette, “un’influenza”. Che è poi coronavirus. Tutti abbandonati a se stessi dalla Sanità». 

Non si può fare nient’altro?
«Si vive di espedienti: sapevo di un’azienda vista su Facebook: due medici che avevano aperto una società che fa i Raggi X a domicilio, facendosi pagare un sacco di soldi. Ma ti può salvare la vita, perché dai raggi riesci a vedere se hai il coronavirus. Accertato quello puoi chiamare il 112 e allora forse qualcuno ti dà retta. Altrimenti qui lo si chiama solo se si è in crisi respiratoria. C’è il mercato nero delle bombole d’ossigeno: andrebbero restituite ma, visto che sono introvabili, quando qualcuno se ne va le teniamo e le giriamo a chi ne ha bisogno».

Tutto il paese in ginocchio.

«Muoiono mediamente sette persone al giorno. Prima due al mese. I negozi ci stanno consegnando generi alimentari e altro e lasciano tutto vicino al cancello, facendoci credito. Pagheremo. Nessuno nelle istituzioni ha capito che cosa stiamo vivendo qui, dove tutti hanno almeno un morto o un malato in casa». 

Quali sono gli errori nella prevenzione?
«È tutto inutile se ci sono file ai supermercati da 45 minuti, con gente che esce a prendere acqua e uova. E anche voi giornalisti, smettatela di scrivere: aveva patologie pregresse: stiamo morendo di Coronavirus, non di asma! È terribile dire questo. Non siamo numeri, ma persone ».

Che lavoro fa?

«Ho un’azienda di rottami e rifuti, la “Lupini metalli”, ma per ora l’ho chiusa: fanc… i soldi, fanc… tutto. E ho fatto mettere in quarantena la mia babysitter e la mia impiegata, era inevitabile». 

È vero che ha festeggiato il suo compleanno a letto, con l’ossigeno?
«Sì, anche quello di mia figlia, a cui suo padre ha piantato una tenda da campo in giardino. A me hanno passato la torta e lo spumante dalla finestra. Ieri sarebbe stato quello di papà. Dovevamo andare in un ristorante con 40 persone che gli volevano bene».

Quando finirà tutto questo, quale sarà la prima cosa che farà?
«Abbracciare mio marito e i miei figli. Sono molto fisica, e ciò mi manca. Poi un salto a Jesolo, che mi lega a mio padre. E a settembre una crociera tutti insieme. Lui aveva girato tutto il mondo sulle grandi navi e ne avevamo in programma una per giugno. Con mia madre sono stati 47 anni d’amore. Ce la faremo. Tutti. Torneremo a essere felici. Più soli, ma felici».


(DAL SETTIMANALE OGGI - APRILE 2020)

 

MANUELA BLANCHARD: "VI RACCONTO LA MAGIA DEGLI ANNI DI BIM BUM BAM, CON BONOLIS"

Manuela Blanchard di "Bim bum bam" ieri e oggi.
Ventidue anni dopo torna in tv e sembra più giovane di prima. La dolce Manuela Blanchard, 60 primavere, conduttrice con Paolo Bonolis del classico per bambini «Bim Bum Bam», in onda sulle reti Mediaset dall’85 al ’98, riconquista un posto in video. Dal 20 marzo, ogni venerdì alle 14.20, sarà su DeAJunior (Sky, canale 623) con «Thai Chi One», programma che avvicina bimbi e genitori alla disciplina salutistica derivata dalle arti marziali.
«Ho sempre dimostrato dieci anni meno di quelli che ho» ammette. «Stupendo, ma la faccia da bambina è anche una fregatura sul lavoro: non hai mai l’età anagrafica che combacia col ruolo che ti viene proposto. Sul tema ho un aneddoto inedito che è una chicca. Lo vuole?».

Sono qui apposta.
«Tra le primissime cose che feci, da ragazza, fu bussare alla porta dell’agenzia Fashion Model, all’epoca la più famosa di Milano. Avevano stangone da 1.90, e io ero 1.65. Beh, mi presero. Esco per il primo servizio di moda. Solo al momento di fatturare, dai dati scoprono che ho 18 anni. In pratica realizzano drammaticamente che non mi sarei più sviluppata in altezza e mi danno il benservito dicendo: “Eh, sai scusa… Credevamo avessi 13 anni…”». 

Una porta chiusa in faccia.
«Era il loro modo elegante per scaricarmi. Non potevano certo dirmi: sei un tappo!».
Ma il suo primo ruolo ufficiale fu quello di annunciatrice su Italia 1.
«La prima della fascia pomeridiana. Con Licia Colò. In prima serata c’era Gabriella Golia».
Non ricordavo una Colò agli annunci, prima di diventare narratrice di terre lontane e natura.
«Certo che li fece. Oggi Licia ha trovato una dimensione che è quella che avrei voluto trovare io, quando da un giorno all’altro chiusero “Bim Bum Bam” e rimasi per strada». 

Una fregatura.
«Già. Mi dissero: televendite? Io: no, grazie. Allora mi diedi da fare, proposi un paio di idee, ma niente. Una si chiamava “Il libro di pietra”: partendo da una grande cattedrale, e dalle sue vetrate, arrivava alla teoria dei colori di Goethe».
Curiosa. Forse non proprio da tv commerciale.
«Eh, d’altra parte avevo Mediaset come interlocutore. L’altro progetto verteva sul mistero, prima del boom di Dan Brown: a metà fra la sit-com e i grandi misteri europei da indagare».
Anche questa non è che…
«Ma infatti non andò in porto, anche perché mi chiesero subito: ma quanto costa? E che cosa volete che ne sappia di quanto costa! Io porto contenuti. Allora mi proposi alla Rai; anche loro avevano programmi per bambini, tipo “Solletico”. Volevano che mi sottoponessi a un provino, dopo che da 13 anni ero in onda ogni giorno a “Bim Bum Bam”». 

Quantomeno indelicato.
«Beh, direi... Allora li salutai e decisi di non continuare a insistere con la tv. Presi un’altra strada».
Ma gli anni di «Bim Bum Bam» furono magici.
«Quando girai la sigla ero incinta di mio figlio Michael, che oggi fa il musicista e vive a Londra, e non lo sapeva nessuno. Dopo cinque mesi partorii. Paolo Bonolis mi disse: “Ecco perché eri un po’ gonfia: pensavo avessi fatto una cura di cortisone”».
Ora sarà affiancata dal pupazzo verde Tino, creato da Jim Henson dei Muppets, ma all’epoca c’era il leggendario Uan, rosa e incontenibile.
«Al quale prestava la voce il sempre poco valorizzato Giancarlo Muratori, un talento vero. Facevamo delle autentiche session di improvvisazione a tre davanti a una scrivania senza nient’altro. Solo un vago canovaccio di storia che ci davamo all’inizio. E piangevamo dal ridere. Oggi è tutto scritto». 

Perché fu chiuso?
«Durò tanto, ma avrebbe potuto proseguire. Un anno decisero di spezzare quest’alchimia a tre, che funzionava benissimo, e aggiunsero altra gente: Paolo se ne andò l’anno dopo, e misero me a fare le esterne. Decisione inspiegabile».
Fece anche «Un milione al secondo», con Baudo su Rete4.
«Un tipo tosto. Con Pippo noi ragazze avevamo un ruolo marginale: rappresentavamo squadre con nomi di stili musicali diversi. Io avevo il rock, un’altra il pop, e così via. Un giorno Pippo si fissa e vuole eliminare il rock, affibbiandomi il liscio. Ma a me il liscio faceva vomitare! Glielo dissi, però non avevo voce in capitolo. Alla fine gli autori riuscirono a farlo ragionare». 

In quel programma conobbe suo marito.
«Vittorio Bianco, che faceva il bassista. Oggi non siamo più insieme, ma c’è un buon rapporto. Galeotto fu un libro di Bernarino Del Boca che aveva sul leggìo. Lo stavo leggendo anch’io, casualmente, fra mille. Chiacchierammo. E da lì scattò la scintilla».
Veniamo al Tai Chi.
«Iniziai a 9 anni ma con lo Yoga: mia madre si convinse che potesse farmi bene alla schiena. Dopo un brutto incidente in motorino, passai al Karate e al Kung fu. Per il Thai chi, che ora insegno in un paio di scuole del Milanese, ho imparato tutto dal maestro Chang». 

Che cosa dà in più il Tai chi?
«Aiuta a instaurare relazioni morbide, armoniose, a smussare gli angoli. Se una forza ti viene incontro non la devi contrastare, ma assecondarla e poi restituirla all’altro in modo virtuoso».
Quindi lei asseconda, abbozza.
«Faccio del mio meglio: però guardi che io nella vita sono stata aggredita cinque volte».
Pazzesco. Racconti.
«La prima volta, da ragazza, un drogato sotto casa mi strappò la collanina d’oro. Ero già cintura nera, avrei potuto dargli una ginocchiata, ma rimasi impietrita. Non sai mai come reagisci in certe occasioni». 

E poi?
«Più in là, una notte in periferia, stavo facendo servizio con un dottorino su un’auto medica della Croce rossa che andò in panne. Ci raggiunse una banda i balordi e attaccabrighe. Io uscii, guardai negli occhi quello che mi sembrava il capo, e gli andai incontro con tutta la mia energia e violenza verbale facendoli andare via tutti».
Eh, ma questo l’ha aggredito lei, però!
«In un certo senso, sì. Ma ho solo intuito quel che stava per succedere. Poi ho bevuto comunque 10 grappini per riprendermi. È che il Thai chi ti fa comprendere anche questo, ti dà la percezione». 

Ora lo insegnerà ai bambini in tv.
«All’inizio ero titubante, poi ho deciso di accettare. Bisogna essere molto semplici e faremo in modo di esserlo. Fra tigri, draghi, la paura del buio da far passare…».
È tornata per restare, o le toccherà invidiare ancora Licia Colò?
«Nooo, niente invidia. Chi lo sa?! Mi piace anche la Sagramola. Sono talmente poco invidiosa che le dico che se Licia mi desse anche un piccolo spazio nel suo programma, accetterei».


(DAL SETTIMANALE OGGI - MARZO 2020)

CORONAVIRUS * MARCO PREDOLIN: "SO BENE COSA VUOL DIRE ESSERE CONSIDERATO UN UNTORE"

Il conduttore tv Marco Predolin.
Se c’è uno che si intende di psicosi da virus, quello è Marco Predolin. Classe 1951, parmigiano di Borgonovo Val di Taro, il conduttore che negli Anni 80 sfondò nell’allora Fininvest con «M’ama non m’ama» e «Il gioco delle coppie», fu perseguitato, alcuni lustri fa, da una nomea di potenziale untore che gli azzoppò la carriera.

Marco, ci ricorda che cosa successe?
«1992, ero al culmine della mia popolarità. Nell’ambiente, messa in giro non si sa da chi, circolò la falsa voce che fossi malato di AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita». 

Risultato?
«Qualcosa di strano, impalpabile ma incredibile: iniziarono di botto a non chiamarmi più, a non farmi più lavorare. Una cappa di silenzio, alimentata da voci e tam tam incontrollabili, fece sì che il mio nome mettesse paura: oddìo, il contagiato».

È un ambiente che a volte non ha pietà, quello dello spettacolo.
«C’era proprio il godimento di farla circolare, quella bufala, e ognuno, per renderla più credibile, aggiungeva particolari di fantasia frutto del passaparola. Una volta un produttore str… chiamò un amico, l’autore Marco Balestri, dicendogli: “Sono a Pavia, dove è ricoverato Predolin”». E lui gli rispose: “Peccato che Marco sia qui con me. Ora te lo passo”». 

All’ospedale di Pavia lei è anche morto, se non sbaglio.
«Non me ne parli: uscì La Notte, un quotidiano del pomeriggio che ora non esiste più, col titolo: “Marco Predolin morto a Pavia”. Presero per buono il lancio di uno speaker radiofonico locale. Anche voi giornalisti, soprattutto quelli della tv, ci avete marciato tanto».

Il vento della calunnia.
«Come quell’altra ghiotta perla che girò a lungo su due famose conduttrici tv che si volevano per forza amanti o su Richard Gere malato in un ospedale romano infettato da un topo finito chissà dove». 

E lei che cosa fece, per difendersi?
«Contro le leggende metropolitane non puoi fare nulla, ma quella cosa procurò alla mia carriera un danno davvero rilevante. E se dopo quasi trent’anni siamo ancora qui a parlarne…».

Girava anche con un certificato...
«Avevo fatto il test che accertava la mia sieronegatività: andai da Costanzo a mostrarlo in tv e poi tenevo sempre quel foglietto in tasca, per placare gli increduli. Fui letteralmente travolto da queste dicerie. In fondo andò peggio a chi ebbe la vita completamente rovinata perché tacciato di essere portatore di sfiga, come Mia Martini e Mino Reitano». 

Tra gli episodi più tristi?
«Quando mi fermai in un autogrill a predere un cappuccino, e poi andandomene sentii chiaro uno dei due baristi dire all’altro: “Lavala bene, quella tazza, perché quello è malato”. Cose che fanno male. Questo episodio mi ha ricordato quello recente di cronaca della signora di Ischia che ha preso a insulti i due pullman di presunti untori di Coronavirus dal Veneto. Ma ci rendiamo conto?».

Lei, con i dovuti distinguo, è come se avesse vissuto nell’ormai famosa «Zona Rossa».

«Non le invidio per niente, queste persone. Perché temo che anche quando tutta questa storia, gestita male dal nostro Governo, sarà finita, non riavranno la loro stessa vita sociale. Saranno sempre quelli di Codogno e dintorni. L’ignoranza impera». 

Perché dice che l’emergenza è stata gestita male?
«Perché gli altri Paesi europei hanno adottato un low profile, sono stati più “schisci”, come si dice a Milano. Noi subito a farci belli, a far vedere che siamo bravi, a pompare sui media, e ora col turismo agli occhi del mondo, come la mettiamo? Anche il Governatore della Lombardia, Fontana, che fa il video con la mascherina. Ma si può?».

Un danno d’immagine?

«Lo stesso che credo avrà Ischia per colpa di quell’incauta signora che crede di vivere in un talk del pomeriggio, e che credo ora sia ricercata da tutti gli albergatori ischitani». 

Come se ne esce?
«Oggi c’è più ironia, anche sui social. Ai miei tempi tutto fu preso molto più sul serio. Ma d’altra parte si tratta anche di situazioni in larga parte diverse».

Adesso lei che cosa fa?

«Sono rientrato appena in tempo da un viaggio a Bali, dove ho fatto incetta di vestiti: ho un negozietto di abbigliamento accanto al mio ristorante di Porto Rotondo, “Pirati italiani”. Necessitava di un approvvigionamento».


(DAL SETTIMANALE OGGI - MARZO 2020) 

JODY CECCHETTO: "ASCOLTO PAPA' CLAUDIO MA POI FACCIO QUEL CHE MI PARE"

Jody Cecchetto, figlio di Cladio e Maria Paola Danna detta Mapi.
Jody ha 25 anni, un eloquio invidiabile, e la stessa sicurezza di papà. Cosa non semplice quando papà si chiama Claudio Cecchetto ed è un gigante dello spettacolo. Che smanetta sullo smartphone seduto sul divano accanto a lui con aria fintamente distratta.
A occhio da mamma Maria Paola Danna detta Mapi ha preso invece l’attenzione per il look, curatissimo. «Sono a posto i miei capelli?» dice Jody fissandola durante alcuni scatti di questo servizio fotografico. Lei annuisce soddisfatta, e si riparte.
Il ragazzo nella vita ha deciso di fare il bravo presentatore. Ma non di quelli vecchio stile, per carità. Qui siamo alla tv 3.0. Come minimo. Dal 16 dicembre, ogni lunedì alle 20.25, è in onda su DeaKids (Sky, canale 601) con «Ready Music Play!». Due squadre miste composte da quattro giovanissime influencer (Sofia Dalle Rive, Caterina Cantoni, Giulia Savulescu e Virgitsch) si scontrano a colpi di «lip sync», ovvero  brani famosi cantati in playback.

«Non ho fatto neppure in tempo a mettermi in agitazione all’idea di debuttare come conduttore» dice Jody «perché tempo un mese dal primo contatto, tramite Matteo Maffucci, ero già in onda. E abbiamo registrato le 12 puntate praticamente in una settimana. Questo programma è figlio del successo di Tik Tok, l’app del momento, che prima si chiamava Musical.ly».
Parlare con Cecchetto junior significa invecchiare a vista d’occhio in soggiorno con la velocità con cui il cinematografico Benjamin Button ringiovaniva. Arrivi dicendo che bazzichi stabilmente Facebook, e lui: «Sì, Facebook ormai è dai 50 anni in su: circolano le foto con i fiori glitterati, le immagini dei cagnolini con scritto: “Condividi se hai un cuore”…». Però tu un po’ lo sapevi e pensi di fare bella figura dirottando subito su Instagram. «Sì, Instagram è dai 30 in su. Hanno preso il meglio di Facebook togliendo altre cose. In realtà ho notato che si va a decenni. Adesso sotto i 30 c’è Tik Tok, e poi vedremo». Morale, è dura: se sei un teenager oggi rischi di andare fuori moda nell’arco di un aperitivo, se fai giusto un po’ tardi.

Rapper, dj, attore di sitcom. «Ora sto facendo radio» prosegue Jody. «Rds Next, che è la prima web radio come si deve, attiva dalle 13 alle 20. Ma fare il conduttore in tv mi piace. Non penso a Sanremo. I miei punti di riferimento non sono Conti o Amadeus, ma piuttosto Alessandro Cattelan con X-Factor. Programma che farei al volo dedicandomici totalmente». Interviene papà Claudio: «Anche Cattelan non credo sia ancora uno da Sanremo, per sua fortuna. È giovane. Non vorrei fare il Pippo Baudo della situazione, ma quando collaboravo con Radio 105 l’avevano piazzato di notte. Dissi: questo signore merita di andare di giorno. E così fu. Mi prendo qualche merito per averlo valorizzato».
«X-Factor» però, da almeno un paio di stagioni, langue un po’ sia come ascolti che come verve. «È vero, perché si sono accorti che di gente brava a cantare ce n’è tanta, ma i talenti puri sono al massimo un paio» dice Cecchetto padre. «E allora fanno tv e spettacolo puntando tutto sui giudici e i loro litigi. A me chiesero all’inizio, anni fa, se volessi entrare in giuria, ma essendo io talent scout chiesi di mettere mano anche ai casting e al resto; mi fecero capire subito che non era aria, che volevano mantenere il controllo totale, e ci siamo salutati».  


Essere figli di Cecchetto è sicuramente un vantaggio, ma può diventare anche un problema. C’è più aspettativa attorno a te, e il sospetto della raccomandazione è sempre nell’aria. «L’ho sempre considerato un privilegio» dice Jody. «Certo alcune cose dispiacciono. Per questo cerco di far conoscere prima me stesso e quando mi presento non dico di certo: “Ciao sono Jody Cecchetto”, enfatizzando il cognome. Che poi esce comunque. Ma papà non mi ha mai raccomandato, né nello spettacolo né alla concessionaria per comprare l’auto con lo sconto».
«E qui fa male» ironizza Claudio «perché quando se ne accorgono magari qualcosina ci scappa. Io per esempio sono quello del “Gioca Jouer” (che in una versione riveduta e corretta è sigla di «Ready Music Play!») e grazie a ciò, per simpatia, non prendo multe dai vigili, e i parcheggiatori mi trovano posto più facilmente. Uscendo dall’auto preparo sempre l’attacco del pezzo: “Dormire, salutare, autostop”». 

Pesa il giudizio di papà, più o meno severo che sia? «Lo tengo sicuramente in grande considerazione, ma poi faccio le mie scelte», dice Jody. «Ma io non voglio mica essere uno spauracchio!» interviene mister Claudio. «E poi il padre è sempre un cretino rispetto ai figli. Non voglio dire cose per far sì che poi lui per ripicca faccia l’esatto contrario. La cosa importante è sapere dove si vuole arrivare, avere un progetto a lungo termine e una visione. E fare i passi giusti per arrivarci».
I Cecchetto hanno anche un altro figlio: Leonardo, 19 anni. «Per la musica ha forse più passione di me. Ha scritto un pezzo free style trap sulle focaccine dell’Esselunga che è diventato virale con due milioni di visualizzazioni» dice Jody con orgoglio.

Insomma, le vie del talento e della visibilità sono infinite?
«Mah, non so. Ogni tanto io incontro qualcuno che mi dice: “Sa che mia figlia canta bene?”» osserva Cecchetto senior. «E a volte rispondo: “Ottimo, se anch’io cantassi bene avrei un futuro sotto la doccia!”.  Non bisogna cantare per forza! Dio ci ha dato la bella voce per farci stare bene, non per rompere le p… al prossimo. Ma poi mi spiace essere troppo definitivo e smontare la gente. Se a un provino si presenta qualcuno che non mi piace non lo stronco; dico che fa un genere che conosco poco e porto esempi di qualcuno che ce l’ha fatta».

Uno che ce l’ha fatta, per esempio, è Max Pezzali, una delle  tante scoperte di Cecchetto: «Si è parlato di lui per Sanremo, ma farlo non gli interessa minimamente» rivela il mentore a Oggi. «Stiamo preparando il suo concerto del 10 luglio 2020 a San Siro. 32 mila biglietti venduti in pochi giorni. I testi delle sue canzoni le cantano tutti in coro. Per i quattro che non le sanno metteremo i testi sui maxi-schermi e faremo il più grande karaoke mai visto in Italia con 60 mila persone».

(DAL SETTIMANALE OGGI - DICEMBRE 2019)

giovedì 23 luglio 2020

BIAGIO ANTONACCI: "VENGO DA UNA FAMIGLIA POVERA', POI HO PROVATO LA RICCHEZZA"

Il cantautore Biagio Antonacci, rededuce da un tour con Laura Pausini.
In punta di piedi, quasi per non disturbare, Biagio Antonacci ha presentato il suo nuovo album: «Chiaramente visibili dallo spazio». Un titolo criptico, che spiega così: «Siamo un puntino che si vede dal cielo, ma in mille altri modi oggi siamo anche totalmente controllati e controllabili, da videocamere in strada o tracciati sul web. Prendiamo atto che siamo osservati: conviene comportarsi bene».
Biagio, come descriverebbe questo lavoro?
«Ormai ne ho fatti 15 in studio, più gli altri. Rispetto ancora i sogni di quel ragazzo di Rozzano che voleva farcela nella musica. Conservo gli occhi da bambino nel guardare le cose. Ma il mio sogno (e prima o poi ci arriverò) è un disco da cantautore acustico: solo chitarra, voce e pianoforte». 

E il tour con Laura Pausini?
«Una cosa bella, con il grande affiatamento di due voci così diverse. Quella è stata la massima espressione del pop. Qui volevo tornare a fare da solo. A raccontare la gente che incontro al bar. Quella che si lamenta perché a 40 anni condivide ancora un appartamento come a 20, o che prova a gioire. Non supereroi, perché quelli hanno un tempo stabilito. Le brave persone durano tutta la vita».
Il suo è un pubblico prevalentemente femminile?
«Le donne da sempre in casa sentono e orientano la musica di tutti. Fra chi mi segue ho mogli, madri, sorelle. E questo ha sempre portato bene».
E lei, che tipo è?
«Vengo da una famiglia povera, ho provato che cosa vuol dire non avere soldi e poi averli. Credo di essere piuttosto concreto e con i piedi per terra».


(DAL SETTIMANALE OGGI - DICEMBRE 2019)

 

CESARE CREMONINI: "MI ERO PERSO E MI SONO RITROVATO IN UNA STORIA D'AMORE"

Il cantautore bolognese Cesare Cremonini, già leader dei Lunapop.
Giacca e cravatta abbinate a una serietà non di circostanza, Cesare Cremonini non ci sta più a fare «quello che sta crescendo: ormai ho 40 anni e un percorso molto definito» dice di sé. «Mi sono perso, nella vita, accorgendomi di non avere più catene. E sto benissimo qui: è il luogo ideale per scrivere la seconda parte della mia carriera». Presentando il suo ultimo album, «2C2C – The Best Of», il cantautore bolognese non lesina confidenze.
Cesare, questa raccolta contiene anche sei inediti, e uno tra i più evocativi è «Giovane stupida». Sembra autobiografico.
«Lo è: rimasto single ho deciso di mettermi con una ragazza molto più giovane di me, entrando nel mood a me lontano dei ragazzi di oggi. Domande tipo: “Chi è questo Mick Jagger?” hanno dietro un mondo».
Continua questa stora d’amore?
«Alla grande. Come si fa a lasciare una ragazza che mi ha consentito di far nascere una canzone così?». 

Perché ha pubblicato questo disco?
«Per raccontare una storia che da me sedicenne che scriveva “50 Special” arriva qui. Per mostrare l’artista e l’uomo che sono diventato. E anche se mi accorgo che l’orecchiabilità spesso ha tanti limiti, non vedo differenze fra le mie canzoni di ieri e quelle di oggi».
Non fa quasi mai duetti o collaborazioni.
«Devono nascere dall’anima, non dalla discografia. In passato feci solo Lorenzo Jovanotti, un sogno realizzato perché la mia spinta verso la musica viene dalle sue canzoni, e lo ringrazierò per sempre, e con Malika Ayane, perché stavamo anche assieme nella vita e si condivideva qualcosa in modo completo».


(DAL SETTIMANALE OGGI - DICEMBRE 2019) 

SANDRA E RAIMONDO * I FILIPPINI MAGSINO NEL LETTONE DELLA VERA "CASA VIANELLO"

In questa foto a dir poco leggendaria, scattata da Massimo Sestini per il settimanale Oggi, vivo la grande emozione di essere al centro del vero lettone della vera Casa Vianello, insieme la famiglia Magsino, i domestici filippini che hanno ereditato la fortuna di Sandra e Raimondo. Più sotto, un video con il backstage del servizio fotografico.
Che fine hanno fatto i Magsino? Che cosa combina oggi la famiglia di domestici di origini filippine per vent’anni al servizio di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, finita tempo fa in un tubinio di polemiche dopo avere ereditato la fortuna della coppia d’oro dello spettacolo italiano? Il peggio (mediaticamente parlando) è passato, come vedremo più avanti. E dalla morte di Raimondo (aprile 2010) a quella di Sandra, appena cinque mesi dopo, i nostri continuano ad abitare gli ultimi due piani di una palazzina nel verde a Segrate, appena fuori Milano, che fu la dimora storica dei due protagonisti del piccolo schermo. Cinque camere da letto, cinque bagni, quadri antichi un po’ ovunque, foto e cimeli di una carriera, un barbecue gigante sul terrazzo, e all’interno quattro persone, il gatto rosso Simba e il coniglio bianco Asti. 
C’è il sornione papà Edgar, 53 anni, che veglia silente su tutti; la quieta Mamma Rosalie, 55, sposatisi nel 1995 (ma presero servizio dai Vianello il 5 dicembre 1991), e i loro due sorridenti figli: John Mark (28) e Raimond (23). Un quartetto che era a tutti gli effetti parte della famiglia.
Il nome di Raimond («Mi raccomando lo scriva senza la y, sbagliano tutti») ci porta subito dalle parti del comprensibile omaggio a «zio Raimondo», come lo chiamano i ragazzi di casa. A far da contraltare naturalmente a «zia Sandra». «Di loro» continua «mi manca soprattutto la quotidianità: lui che mi preparava la colazione e poi, da piccolo, in assenza di partite di calcio, mi portava al piano di sopra a guardare in tv certi cartoni animati che sopportava a malapena per farmi felice».

Dopo il liceo scientifico, Raimond, insieme con il suo personal trainer, ha aperto una società che si occupa «di affitti e compravendita di immobili».
I due fratelli furono anche protagonisti di un episodio di «Casa Vianello» intitolato «Il mago pennellone», nel quale un Raimondo illusionista riusciva perfettamente nel numero della sparizione di cinque euro. Più presentein tv è stato invece il maggiore, John Mark, comparso anche in «Cascina Vianello». Fu lui, dopo la ravvicinata scomparsa di Raimondo e Sandra, a occuparsi in parte del patrimonio di famiglia. «Iniziai a studiare Economia e commercio, facoltà che ho poi lasciato. Poi ho seguito corsi di memoria e lettura veloce e anche comportamentali, inerenti al relazionarsi con l’altro sesso. Avevo anche bisogno di conferme. Il trauma per la morte degli zii fu forte e sentivo psicologicamente il peso di dovere in qualche modo tutto a loro. Oggi rappresento per Monza e Brianza il progetto di un “centro commerciale digitale” per aziende e privati: “Cashback World” ». 

Mamma Rosalie, dal canto suo, torna spesse nelle Filippine, nella provincia di Oriental Mindoro, per seguire le attività di una Onlus dedicata a Sandra e Raimondo; si occupa di aiutare a progredire bambini e nuclei familiari che vivono in uno stato povertà e arretratezza.
Ben diverse le attitudini di papà Edgar, che zitto zitto, da tre anni a questa parte, col suo Thunder Bowl Milano Team (al quale è iscritto anche John Mark) è diventato un campione di bowling. Partecipa a vari tornei, ma il suo orgoglio è stato il sesto posto (su 176 partecipanti) strappato al “Ranking 500”, sfidando i più grandi professionisti italiani.
«Quando leggemmo le referenze per entrare a lavorare in questa casa» dice Rosalie «Sandra chiedeva espressamente una coppia con un figlio piccolo (John Mark aveva appena sei mesi) disposta a vivere qui. Siamo stati assieme e al loro servizio facendo una vita normalissima per vent’anni e il valore più grande che ci hanno lasciato è stato l’affetto. Il periodo più difficile? Quel lasso di tempo, relativamente breve, fra la malattia e la morte di Raimondo, e la vista di Sandra che a seguire si spegneva lentamente». 

Poi affiorano i ricordi felici di una vacanza invernale a Crans-Montana, in Svizzera, dove Vianello e Mondaini possedevano un’altra casa: «Quella l’abbiamo venduta» spiega Rosalie «perché ci andavamo soltanto un mese all’anno. Del resto sia Raimond che John Mark non sanno sciare per assoluto divieto di Sandra, che era terrorizzata dal fatto che potessero farsi male». «Vietata anche la moto», incalza Raimond. «A Crans-Montana» ricorda John Mark «zio Raimondo, che aveva appena imparato a inforcare gli sci, inciampò e cadde fra la neve fresca mentre stava per prendere lo skylift e Sandra se ne andò via ridendo. Un’altra volta, in una discesa, prese un suo amico che stava a valle come un punto nel mirino e finì per travolgerlo alla fine della corsa».
In un’Italia dalla xenofobia spesso strisciante o marcata, una famiglia di filippini che eredita la fortuna dei Vianello non può non essere oggetto di invidie. «Un peso che si è sentito, ma più che invidia mi piace chiamarla gelosia, per attenuare» dice Rosalie. «All’inizio leggevo certi commenti sui social e ci restavo malissimo. Poi l’ho superata. Questi che offendono dietro un nickname non si rendono conto che dall’altra parte ci sono delle persone?», rintuzza John Mark. «Io invece di prendermela li sfottevo a modo mio» dice Raimond. «Leggevo dei ricchi filippini e commentavo rincarando la dose: “Sì sì, questa sera vanno a spendersi tutto a cena da Cracco».
Su un tavolino del soggiorno, tante foto. Una di queste vede John Mark e Raimond decisamente più giovani e in mezzo a loro Silvio Berlusconi. «Venne a casa quando zio Raimondo stava male» racconta John Mark. «E quella foto la ricorderò sempre perché ci teneva schiacciati per abbassarci, credo per risultare più alto. Lo vede che sono tutto storto? Zio con lui scherzava sempre e lo prendeva in giro: “il Berlusca” gli diceva. Lui era uno che ironizzava sempre. Chiunque avesse davanti: un prete, un politico, un ufficiale delle SS. Zio Raimondo prendeva in giro tutti».


(DAL SETTIMANALE OGGI - DICEMBRE 2019) 

mercoledì 22 luglio 2020

KATIA RICCIARELLI: "NON AVEVO LE CHIAVI DELLA CASA DOVE VIVEVO CON PIPPO BAUDO"

Katia Ricciarelli durante il periodo del matrimonio con Pippo Baudo. La soprano è attualmente in onda su Rai1 insieme con Pierluigi Diaco nel talk-show "Io e te".
La vera diva è Ciuffi, batuffolo bianco screziato che zampetta con alterigia in platea, nel foyer e tra gli austeri saloni del Teatro Verdi di Trieste. «È un incrocio fra un maltese e uno yorkshire, ce l’ho da un anno e ormai è la mascotte della compagnia» dice amorevole Katia Ricciarelli. Che lavora alacremente alla regia di due opere: «Turandot» di Puccini (debutto il 29 novembre nella stupenda città friulana) e a seguire la classica «Aida» verdiana.

Katia, esagero se la definisco «La regina della lirica italiana»?

«Beh, non sarebbe il primo… Massì, dai, diciamo che ci può stare».
Festeggia 50 anni di carriera. A che punto si sente della sua vita?
«Sono una che per il lavoro ha sacrificato tutto, e coerentemente continuo a lavorare, a cantare, a insegnare, a coltivare interessi, a fare tv quando capita». 

Con il pubblico dalla sua.
«Ho tanti sostenitori nonostante l’Italia sia un Paese che ama portare in vetta i propri beniamini e poi distruggerli. Quelli che non sopporto sono i tipi che escono dal teatro e dicono: “Certo che da ragazza la voce era un’altra cosa”, oppure: “Dai, tutto sommato se l’è cavata ancora”. Queste cose mi mandano in bestia ed è il motivo per cui ho smesso di fare opere».
Patisce così tanto il giudizio degli altri?
«Tiro dritta ma lo patisco. Le malelingue mi destabilizzano».
Prima ha glissato sul privato.
«Mannò, ho un passato con due storie importanti: una di 12 anni con Josè Carreras…». 

I sacri testi dicono 13.
«Sa che mi sta mettendo il dubbio? (Ride). Sì, ha ragione: tredici. E poi 18 di matrimonio con Pippo Baudo. Completando l’opera. Diciotto, capisce? Non ho neanche raggiunto i vent’anni di versamento di contributi sentimentali minimi. Che cosa vuole, la butto sul ridere».
E la battuta è anche buona. Ma che cosa non ha funzionato?
«Quando sono nati quegli amori c’era affetto, attrazione. Tutto. Quando le cose non funzionano più bisogna prenderne atto e chiudere».
Non ama accontentarsi.
«No, il tirare a campare non fa per me. Non ha senso. Altrimenti certe relazioni le avrei riprese». 

Lei è nota per coraggio e schiettezza. Litiga spesso?
«No, evito. Mia madre mi chiamava “Fiammifero”: mi accendo, brucio e mi spengo subito completamente. Invece l’altra persona magari se la lega al dito per tutta la vita».
Però scusi: lei e Pippo Baudo siete due indiscutibili dominatori. Avrete litigato di continuo.
«Pensi che ho rivisto Pippo quest’anno, per caso, all’inaugurazione della stagione dell’Arena di Verona, dopo che non ci vedevamo né ci parlavamo da ben 15 anni. Mi ha fatto piacere perché abbiamo chiacchierato e ci siamo abbracciati con estrema naturalezza. Con serenità».
Possibile, 15 anni di silenzio?
«Sì, c’è l’orgoglio, il caso che non ci ha fatti incontrare, nessuno che alza la cornetta per primo. Sono le macchie d’olio che si allargano, come le chiamo io». 

Torniamo ai litigi baudiani. Saranno stati memorabili.
«Non tanti, in realtà. Lui diceva sempre: “Io non voglio farli, preferisco vivere tranquillo”. Io invece penso che per far funzionare una storia si debba parlare e “baruffarsi” ogni tanto e poi fare pace. Se non si discute finisce che poi cala il silenzio e tutto muore. Allora ogni tanto prendevo e me ne andavo, ma poi non potevo rientrare perché non avevo le chiavi».
Mi sta dicendo che non aveva le chiavi della casa che abitava con Pippo?
«Eh, che cosa devo dirle… Non le avevo! Però in realtà c’era quasi sempre una signora dentro che apriva. Litigavamo, lui provava a trattenermi, me ne andavo e poi tornavo. Una volta, sposati da poco, mi trovai a dormire a Roma allo Sheraton. Avranno pensato: “Toh, Baudo l’ha già cacciata di casa”». 

Perché litigavate?
«Ero gelosa di tutte le donne belle che aveva sempre attorno. Lui mi diceva: “Scendi dal piedistallo, non fare la diva”. Ma quale diva? Ero in perenne sbattimento, che gli frugavo anche nelle tasche di nascosto per controllare. Poi quando le cose si guastano è finita, non le riaggiusti».
E con Carreras, come andò?
«Eravamo giovani e molto innamorati. L’ho lasciato, è tornato dall’ex moglie, poi ci siamo rivisti e rimessi assieme e poi lasciati di nuovo; è tornato ancora dall’ex moglie. Insomma, un casino: era tutto un ciàpa sü, ciàpa zò che non le dico. Poi è spuntato un figlio».  

Che tipo era José?
«Simpatico. Come molti catalani, imprecava tantissimo nella sua lingua. Quando si mise con me imparò anche le imprecazioni in italiano, che non capiva bene e gli sembravano meno gravi. Un giorno a Vienna lo dovetti fermare perché continuava a imprecare in italiano».
Solo due tenori nella sua vita sentimentale?
«Sì, al massimo qualche tenorino agli inizi. Ci fu anche un flirtino - perché con lui più di quelli non potevi avere - con Alberto Sordi. Le sue sorelle mi volevano molto bene, perché fra quelle che frequentava ero l’unica che lavorava. Debuttai e mi mandò 100 rose rose. Ma allora non è avaro come dicono, pensai. Scoprii poi che le aveva mandate la casa di produzione». 

Che cosa le è mancato, nella vita?
«Forse un figlio, ma mi sono anche detta tante volte che avendo sacrificato tutto al lavoro, sarei stata probabilmente una pessima madre. A un certo punto con Pippo l’abbiamo anche cercato, ma non è venuto. La natura ha detto la sua».
In compenso a Pippo ne spuntò uno all’improvviso, Alessandro, che non sapeva di avere.
«Sì, mi diceva: faccio il test del Dna. Ma quale test vuoi fare, gli ripetevo: non vedi che è uguale a te?».
Lei è un soprano senza la puzza sotto il naso. In tv ha fatto persino il reality «La fattoria», nel 2006.
«Mi ero appena lasciata con Pippo e avevo bisogno di andare lontano e distrarmi. Non mi posi neanche il problema di passare per quella che voleva rinfrescare la propria popolarità». 

Ha ricevuto altre proposte?
«Di tutto, in primis “L’isola dei famosi” e il “Grande Fratello Vip”, ma ho sempre declinato. Di recente persino “Tale e quale show”».
Come giurata. Non sarebbe stato male.
«Ma quale giurata? Avrei accettato. Volevano mettermi in gara a fare le imitazioni! Lei capisce che va bene tutto, ma…».
Ha ancora quella passionaccia per le slot machine?
«Certo, ma senza mai rovinarmi. Mi piacciono quelle lucine colorate, le rotelle che girano. E dovrebbe vedere che calci tiro a quelle macchine quando perdo. Le insulto e tiro calci. E siccome non vado mascherata e con i baffi, ogni tanto arriva quello che: “Scusi, ci facciamo un selfie?”. Ma che selfie vuoi fare con me e la slot? Ma lasciami in pace, che son qui a rilassarmi!».


(DAL SETTIMANALE OGGI - DICEMBRE 2019) 

AL BANO CARRISI: "SE FOSSE STATO PER ME, NON AVREI MAI LASCIATO ROMINA"

Gli amori, si sa, vanno e vengono (anzi, «Fanno dei giri immensi e poi ritornano», per dirla con Venditti), ma la «Felicità» di cantare insieme dall’altra parte del mondo, te la vuoi negare? Certo che no.
Prendi Al Bano e Romina Power, per esempio, che con la sicurezza di due artisti che affrontano il palco da una vita, hanno appena (ri)portato le loro canzoni persino in Australia. Dove Oggi li ha seguiti passo passo.

Le foto di questo servizio sono la testimonianza di un trionfo che si è consumato sulle note di successi intramontabili. Dalla romantica «Nostalgia canaglia» a «Nel sole» (prerogativa vocale di Albano Carrisi, così all'anagrafe); dal classico per bambini «Il ballo del qua qua», a «Ci sarà», passando per «Cara terra mia» e sorvolando persino «Nel blu dipinto di blu» di Domenico Modugno. E il calore di un pubblico che non smette di adorare i nostri anche a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia (e a 25 anni dall’ultima performance australiana insieme) si è fatto puntualmente sentire.
Al Bano e Romina si sono esibiti prima, per due sere, allo State Theatre di Sydney; poi, il 12 ottobre, davanti a quasi 4000 persone, alla Margaret Court Arena di Melbourne, dove la signora Power è entrata in scena ringraziando il pubblico, sempre prevalentemente italiano d’origine, ma sfoggiando una bandiera australiana.

Altra piccola curiosità per chi vuole sapere ogni dettaglio sulla coppia d’oro della nostra canzone: entrambi hanno soggiornato nello stesso hotel: il lussuoso Royce.
La scaletta dei concerti (quasi tre ore ciascuno, con inizio alle 19.30, come usa da queste parti) si apriva con quattro canzoni di Yari Carrisi, il figlio di Al Bano e Romina, musicista e autore, che oltre a presentare se stesso introduceva poi i genitori. Oltre alla band, c’erano due coriste. Una di queste era l’altra figlia, Romina Jr. Da sempre appassionata di recitazione e fotografia, ma che non ha sfigurato anche alle prese con il variegato repertorio di mamma e papà. «Di norma ho quattro coriste» commenta Al Bano «ma tre purtroppo hanno dato forfeit per vari motivi personali, e Romina Jr. è arrivata in supporto debuttando come cantante e cavandosela egregiamente. Questo lo dico da spettatore, non da papà».

Non sono mancati (soprattutto a Sydney) i siparietti che hanno esaltato il pubblico, come questo dialogo ammiccante: Al Bano a Romina: «Lo sai che canti bene? (risposta soave: «Anche tu»). L’anno scorso ero qui da solo e si sentiva, mancava l’altra metà del cielo, ma non hai voluto venire: pensavi che si fossero dimenticati di te?». Romina: «Non è vero che non ho voluto, ma un po’ lo temevo, sì». Chiosa Al Bano: «Gli italiani non dimenticano. Sono gli americani che dimenticano». E quando una fan li ha invitati a tornare insieme anche nella vita, non è mancata una stilettata dell’uomo di Cellino all’ex moglie: «Ma fosse stato per me non l’avrei mai lasciata, Romina: è stata lei ad andarsene…».
«Ironia e voglia di giocare in scena fra noi non sono mai mancati in questi concerti» commenta Al Bano. «Ci siamo trovati talmente bene che stiamo già pianificando una tournée con cinque date qui il prossimo anno: Brisbane, Sydney, Melbourne, Adelaide e Perth. Ora invece ritorniamo in Italia per poi ripartire fra una settimana per l’Uzbekistan. È un po’ stancante, ma non ci tiriamo indietro».
Impossibile non chiedere notizie al granitico pugliese della canzone leggera italiana dell’ipotesi di un ritorno della coppia in gara al prossimo Saremo confezionato da Amadeus, ventilato di recente: «Su questa cosa» ribatte l’interessato «si è fatta un po’ di confusione: esistono effettivamente due canzoni che giacciono in un cassetto da tempo. Un bel pezzo di Depsa scritto per me, come solista, e un altro altrettanto carino di Cristiano Malgioglio pensato per me e Romina. Nessuna delle due però è stata presentata ufficialmente al Festival. Dove io in gara fra l’altro non voglio più tornare. Al limite potrei anche presentarmi all’Ariston, ma solo se mi inviteranno fra gli ospiti d’onore». 


(DAL SETTIMANALE OGGI - OTTOBRE 2019)
 

LUCA GIURATO: "HO AVUTO TANTI AMORI (E SCHIVO LE BASTONATE DI MIA MOGLIE)"

Il conduttore Luca Giurato, marito della giornalista Daniela Vergara.
«Ragazzi, voi spingete a destra e io tiro, che qui c’è un’emergenza!», tuona Luca Giurato davanti a una pesante porta scorrevole a specchio che non vuole saperne di aprirsi. Neanche il tempo di arrivare nella bella casa romana del conduttore, a due passi da Via Veneto, che fotografo, assistente e giornalista di Oggi si trasformano in unità di crisi: la moglie di Luca, la giornalista Daniela Vergara, è rimasta infatti intrappolata nella grande cabina armadio, tra scarpe e chiffon, e il surreale clima domestico sta tra il film d’azione e la commedia sofisticata. Il tutto mentre Violy, 70 anni, delle Filippine, da più di 20 al servizio della famiglia, non si scompone e serve caffè e piccola pasticceria. Prima che a qualcuno venga in mentre di chiamare gli Swat, Oggi risolve: Daniela viene strappata alla sua dorata prigionia e il marito urla di gioia facendo la ola.

Luca, come inizio non c’è male. È questa la sua routine?
«No, sono le mie passeggiate quotidiane a Villa Borghese. Stamattina per esempio girato l’angolo mi sono imbattuto nel poster di una top model che sfoggiava uno strepitoso derrière, tra il mio stupore e l’ilarità dei passanti». 

Immagino. Il 23 dicembre compirà 80 anni, come il nostro giornale. Il suo futuro come lo vede?
«Voglio diventare cacciatore di pianeti. Dopo avere letto dei tre scienziati che hanno preso il Nobel per la Fisica dopo avere studiato il Big Bang e nuovi mondi alieni, mi sono innamorato di ‘sta cosa».

La scienza, la divulgazione e gli ufo. Si mette a fare concorrenza a Piero Angela?
«Mannò, non voglio portare via il lavoro a nessuno! E poi Piero parla anche della Terra. A me interessa solo il cosmo, il vuoto siderale e altri mondi oltre le galassie inesplorate. Posti dove ci sia l’acqua, e dunque anche potenziali forme di vita che noi magari chiamiamo proprio aliene». 

Ma quella rubrica fra l’attualità e la satira che ha in mente da un po’?
«È sempre lì, nel cassetto, Rai o Mediaset che sia; ma ha contorni ancora non ben definiti. Però ho trovato il titolo: “Attenti al matto!”».

La sua carriera, dal giornalismo per la carta stampata all’intrattenimento, è stata monumentale. Vogliamo fare invece un bilancio sentimentale?

«Prima di sposare Daniela ho avuto un’altra meravigliosa moglie che si chiama Gianna e fa l’avvocato. E prima, tanti amori. A volte m’addormento pensando alla fortuna di avere avuto storie con ragazze cinesi e delle isole dell’Oceano indiano, e anche di Brisbane, in Australia». 

Caspita, un playboy!
«Oh, nun me lo fa di’ a mme, però è tutto vero».

Con Daniela vi sarete conosciuti in Rai, ovviamente…
«No. A colpirmi fu per prima cosa la sua voce: io ero al quotidiano La Stampa e lei lavorava per un’agenzia che forniva notizie al giornale. Alla seconda telefonata mi sono detto: questa la devo conoscere. L’incontro avvenne per caso a Montecitorio. Mi si para davanti questa stupenda creatura. Poi ci sono volute le sette fatiche di Ercole più le mie per invitarla a un caffè e a una cena. Seguì matrimonio».

Sua moglie sembra una donna energica, dominante, che non rinuncia al bastone del comando. È così?
«Senza dubbio ha il bastone del comando e io sono un genio assoluto nello schivare quelle bastonate. A volte accetto con tenacia la sfida, altre mi arrendo alla sua indiscussa superiorità. C’è poco da fare: oggi le donne hanno la supremazia».

Ogni tanto, per sopravvivere, le toccherà dire anche qualche bugia.
«Sì, ma niente di grave: al 99% sono bugie bianche. Però poi mi scavo la fossa da solo; la sera, a letto, con un po’ di compiacimento, le dico: “Ma ti sei accorta che prima ti ho detto una c…?”. Risposta: “Sì, me ne sono accorta ma tu non dire parolacce!”».

Uno stratega. Facciamo invece la classifica delle cinque partner professionali con le quali ha lavorato meglio.
«Paola Saluzzi, Livia Azzariti, Mara Venier, Eleonora Daniele e Monica Maggioni».

È stato conduttore storico di «Domenica in» e «Unomattina». Le manca l’adrenalina della diretta?
«Sincero sincero? No, sto bene così. Non ho più l’età né la forma fisica. Quando dal vivo percepisci stanchezza e un po’ di distrazione mentale, conviene lasciare e dedicarsi ad altro». 

Con i suoi trascorsi, ha il complesso di essere pecepito a volte come una macchietta? Della serie: quel mattacchione di Giurato.
«Sarò onesto: a volte un po’ mi scoccia. Mi diede soddisfazione una volta Barbara D’urso nella più bella intervista che io abbia fatto in tv, presentandomi come “Un giornalista con gli attributi”».

Le sue gaffes sono scolpite nel cielo. Come quando diede la parola al Presidente dell’associazione sordomuti. Ricordiamone un’altra.
«Conducevo con Roberta Capua. Arriva un ospite con un cane stupendo. Per tutto il tempo ho chiamato l’ospite col nome del cane. Roberta mi ha corretto, me la sono anche presa con lei, ma poi il signore le ha dato ragione. Avrei voluto scomparire». 


Poi c’è un elenco sterminato di parole e frasi che ha storpiato, anteposto, posposto; lapsus a non finire. Per esempio: «Buongiollo», «Prostita», «La coda dell’otto», «Buonvenuti», e mille altre. Sempre naturali, o a volte ci marciava?
«Assolutamente naturali. E quando ho provato a calcare la mano mi sono accorto che era meglio lasciare andare le cose per il loro corso».

Su internet ne gira una stupenda che le viene attribuita: «Mi sono cotto il razzo». Vera o leggenda?
«Onestamente non la ricordo, ma conoscendomi potrei tranquillamente averlo detto».

Provo a regalare uno spunto autorale ad Amadeus. Se per il prossimo Sanremo la chiamasse non certo a condurre il festival, ma a declamare titolo, autori, interprete e direttore d’orchestra di ogni canzone in gara?
«Ce còro, direbbero a Roma. Andrei di corsa: mi pare un’idea molto simpatica». 

Qualche tempo fa mi mandò un messaggio in romanesco molto critico nei confronti della sua Roma. Vogliamo approfondire?
«È diventata una città invivibile; non solo nelle periferie, ma anche in centro. Tra immondizia, topi, cinghiali, avvoltoi, c’è di tutto. Ma sono un po’ bloccato a parlarne».

Perché?
«Perché Virginia Raggi è persona gentile e mi piace fisicamente. La conobbi due anni fa agli Internazionali di tennis, facemmo una foto insieme, fu disponibilissima. Ha un bel sorriso e quel nasino che mi piace alla follia. Quindi è un peccato che sotto la sua amministrazione la mia città si sia ridotta così».

Grazie Luca, è stato un enorme piacere.
«Graziea te e al tuo stupendo giornale. Ah mi raccomando: questa cosa del naso mettila: è importante. Poi me s’inc… Daniela, ma pazienza».

(DAL SETTIMANALE OGGI - OTTOBRE 2019)


RECOVERY FUND * IL TRIONFO DI CONTE E L'ENNESIMA FIGURACCIA DI SALVINI

Da sinistra, Matteo Salvini e Giuseppe Conte prima che il leader della Lega lasciasse il Governo nelle mani dell'attuale Presidente del Consiglio, commettendo un errore politico che gli è costato caro.
Giuseppe Conte porta a casa dall’Europa grazie al Recovery Fund un accordo economicamente epocale per l’Italia post #Covid19. Giorgia Meloni fa una fatica barbina, le si contorce la bocca, è paonazza ma non riesce di fatto a criticare (non ci sono elementi, restano sul piatto 80 miliardi a fondo perduto e 127 di prestiti fortemente agevolati); Silvio Berlusconi tramite i suoi addirittura elogia l’operato del Governo. E che cosa fa Matteo Salvini
Vuoi che non ne approfitti per prendere per i fondelli i propri elettori, che sono anche un tantinello abituati a fare figure per interposta persona, a dire il vero? Parla di “fregatura clamorosa”. Quelle fregature tipo quando vinci il primo premio alla lotteria, quando erediti dallo zio d’America, quando per disgrazia te la dà Charlize Theron. Ecco, quelle fregature lì. Non ti ripigli più da fregature del genere.
Se non altro il pagliaccio stavolta è riuscito a far ridere senza il retrogusto amaro.

venerdì 17 luglio 2020

PAOLO BORSELLINO * IL FIGLIO LO RACCONTA NELL'ANNIVERSARIO DELLA MORTE

Da sinistra, i procuratori anti-mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Uno dei fatti di cronaca più cruenti della storia contemporanea che ha cambiato per sempre il corso della storia italiana: l’uccisione dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992 entrambi per mano della mafia. Nella settimana dell’anniversario della morte del giudice Borsellino, avvenuta il 19 luglio del 1992, Discovery Italia dedica una serata al magistrato ucciso nell’attentato che ha sconvolto il paese e al collega Giovanni Falcone.
Per il ciclo Nove Racconta propone il documentario “In un altro paese”, in onda sabato 18 luglio alle 21.25 sul Nove. “In un altro paese, gli autori di questa impresa sarebbero stati trattati come degli eroi, in un altro paese questi magistrati sarebbero stati messi nelle condizioni di vincere questa guerra, invece in Italia avvenne il contrario, nel giro di pochi mesi il pull antimafia guidato da Borsellino e Falcone venne stretto in una morsa che portò alla strage di mafia più cruenta della storia”, questa l’amara sentenza che il giornalista e scrittore statunitense Alexander Stille lancia allo spettatore attraverso un excursus storico-politico puntuale ed impietoso. Ad affiancarlo in questa dolorosa ricostruzione, l’amica e fotografa di mafia Letizia Battaglia, i cui scatti cruenti rievocano con potenza la brutalità delle centinaia di omicidi che insanguinarono la Sicilia.
La giornata di sabato 18 luglio dedicata al ricordo dei due magistrati italiani continua con il film-documentario “Paolo Borsellino - Era Mio padre” in programma in esclusiva sulla piattaforma Dplay Plus e che vedremo poi in autunno anche sul canale Nove. Una lunga lettera scritta dal figlio di Paolo Borsellino, Manfredi, ricostruisce attraverso filmati originali e testimonianze di amici più cari, la vita privata del magistrato antimafia. Nel docufilm vengono narrati i difficili anni del maxiprocesso, dettagli sull'esilio forzato all'Asinara; il ritorno a Palermo e il dolore per l'uccisione dell'amico fraterno Giovanni Falcone. Ma al contempo “Era mio padre” è anche un ritratto dell’uomo Borsellino: il suo indistinguibile sorriso, la battuta pronta e i gesti di tenerezza di un condannato a morte. Filmati e audio originali di intercettazioni, interrogatori e sopralluoghi accompagnano poi il racconto di Fiammetta e Salvatore Borsellino, principali artefici di una battaglia per la verità sul movente dell'attentato e sulla sparizione dell'agenda rossa.

giovedì 16 luglio 2020

DODI BATTAGLIA: «LA MIA VITA CON E SENZA I POOH IN UN NUOVO AUDIOLIBRO»

Dodi Battaglia, leggendario chitarrista dei Pooh, esce con un audiolibro. 
Giovedì 16 luglio esce l'audiolibro di “Lo sai che da vivo sei meglio che in tv?” di Dodi Battaglia, pubblicato da Volume Audiobooks.
La musica sa entrare nelle vite di tutti noi e ci accompagna anche se non ci accorgiamo di lei. C'è chi la sceglie come amica e alleata di una intera vita e diviene suo tramite per toccare le emozioni e le esistenze di milioni di persone.
Questo è quanto è accaduto a Dodi Battaglia, chitarrista, paroliere ed interprete entrato a pieno titolo nella storia della musica pop italiana insieme con Red Canzian, Roby Facchinetti e Stefano D'Orazio. Dopo avere narrato molteplici racconti attraverso le canzoni, Dodi ha deciso di condividere la sua personale esperienza come uomo ed artista attraverso una raccolta di aneddoti e riflessioni in libertà, il tutto arricchito dai contributi di amici, di colleghi, di quanti con lui hanno collaborato e condiviso la passione per la musica.
Questi sono i contenuti della biografia “Lo sai che da vivo sei meglio che in tv?”, arricchita nella versione audiolibro di ben dieci nuovi capitoli, scritti nell'arco di tempo che va dal 30 dicembre 2016, data nella quale i Pooh hanno salutato definitivamente il loro pubblico, fino ad oggi.
Voce narrante è Dodi in prima persona, il quale si è avvalso del contributo di Christian Iansante, Chiara Colizzi e Mattea Serpelloni, importanti rappresentanti del doppiaggio cinematografico italiano.

mercoledì 15 luglio 2020

CHUWI HEROBOOK PRO * MEMORIA DELUDENTE, UN BUG (COSTA POCO, VALE POCO)

Recensione completa (review) di Chuwi HeroBook Pro.
Il Chuwi HeroBoook Pro è un computerino cinese che vale quel che costa. Ovvero molto poco. Io l'ho pagato 259,99 euro, ma vedo che su Ebay ora è disponibile a 249,99.
E' la versione con schermo da 14 pollici 8 giga di Ram e 256 di hard disk. Molto leggero e all'apparenza anche molto fragile, ha come unico punto di forza il processore Intel. Peccato che all'atto dell'acquisto dichiarino ore e ore di autonomia della batteria. Durata effettiva che nella realtà è di circa ben 2/3 inferiore rispetto al dichiarato; e sto parlando di un consumo normale del device, di una macchina non sotto stress ma in banale video scrittura. C'è poi nel mio caso anche un piccolo/grande bug random: ogni tanto parte inaspettatamente un click del "mouse" che può creare qualche problema. E' un difetto molto casuale, ma come potete facilmente immaginare qualche fastidio lo procura e lo procucurerà sempre nel tempo. Insieme con una durata batteria che è partita già malissimo. Figurarsi in futuro.
Un capitolo a parte merita l'incredibile (davvero incredibile e surreale) servizio di assistenza. Ti contattano loro perché ti hanno dato 5 stelle di feedback e vorrebbero che gliele dessi anche tu per ricambiare. Tu spieghi che ciò non può avvenire perché la macchina ha evidenti difetti e/o problemi. La prima soluzione proposta è: mandi il computer al nostro centro di riparazione in Spagna. Tu spieghi che è impossibile perché il laptop ti serve ogni santo giorno per lavoro e che non puoi permetterti di vederlo sparire magari per un mese e passa perché dove ti trovi non ne hai un altro. 
La seconda soluzione proposta è: lo porti in un suo negozio di fiducia, lo faccia riparare e le rimborseremo una parte del costo di riparazione (una parte, non l'intero costo, faccio notare, senza specificare la cifra). Spiego che a prescindere anche questa non è una soluzione praticabile perché ancora per qualche mese mi trovo in campagna, non ho un negozio di computer nelle immediate vicinanze, e quand'anche lo trovassi la trafila sarebbe comunque: il piccolo negozio prende il Chuwi e lo manda in un centro (magari lo stesso spagnolo della Chuwi) a far riparare, e la situazione è la precedente sul piano delle tempistiche. Mi offrono prima 10, poi arrivano sino alla bellezza di 20 euro di rimborso (avete letto bene) per compensare il danno patito. Propongo due soluzioni alternative che mi paiono il minimo dell'equità: l'invio gratis di un loro prodotto minore, un piccolo tablet, oppure il rimborso di 86 euro (un terzo di quanto ho pagato il portatile) per compensare il disagio patito e chiudere così la vicenda. Dopo un tira e molla assurdo che dura per settimane (ho tutti i messaggi conservati), né l'una né l'altra soluzione vengono accettate. Insomma, d'accordo non è un Apple né un mezzo di gran marca. D'accordo, avrete anche speso poco. Ma se volete comprare un Chuwi vi consiglio di lasciar perdere. Per non avere a che fare né col computer, né con l'assistenza di Chuwi. La sensazione che se ne ricava è di essere grandemente presi in giro.

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