lunedì 3 marzo 2014

LE REAZIONI DEL ROMANO MEDIO ALLE CRITICHE A «LA GRANDE BELLEZZA»

Caro romano medio,

me stai a fa' preoccupà. E mo te spiègo er perché. Perdona si te lo scrivo soprattutto in itajano, che me viè senz'artro mejo.

Da quando è uscita «La grande bellezza», mi è capitato di scrivere alcune volte su Facebook e Twitter che eravamo in presenza di qualcosa di «bello ma sopravvalutato» (un giudizio tutto sommato positivo, non trovi?). Un film piuttosto noioso, ben recitato (non solo) da Toni Servillo, che giocava strategicamente sulle immagini di una Roma stupenda per conquistare la platea, con un occhio già ben puntato sul gusto americano. Situazioni un po' già viste del generone capitolino, un collage purtroppo disunito di ironici quadri a volte ben impostati da Paolo Sorrentino (dimentichiamo il lungo scivolone del capitolo Santa, inguardabile) ma nell'insieme un buon lavoro. Certo, sopravvalutato.
Dev'essere stata questa parola sconcia, dev'essere che forse, romano medio mio, nun te se po' di' gnènte, fatto sta che ho subito compreso la totale intangibilità de «La grande bellezza» ai tuoi occhi partigiani. Il titolo del film e alcune critiche - anche motivate - non potevano essere associati, neppure per scherzo. Guai. E così, bello mio, hai cominciatò a inzurtà: il messaggio basico era, sostanzialmente: a stronzo, nun te devi permétte de criticà 'n capolavoro. Con varie sfumature. La parola più usata per attaccarmi, quella a te più cara, era: rosichi, stai a rosicà. Vedi, romano medio mio, potrei rosicà se facessi er cinematografaro, er reggìsta o l'attore. No, faccio er giornalista. Mestiere fra l'altro in via d'estinzione. Quindi scialla, nun te preoccupà. So immune da 'sti tipi de rosicamento. Stacce
Poi, meravigliosi, gli insultanti: «Visto il giornale per il quale scrivi, come puoi conoscere la Grande Bellezza?». Oppure, con altrettanta sufficienza: «Occupati de le cosétte tue...». Pochi si lasciavano andare a disamine più accurate. Non avevano nulla da dire se non una difesa cieca e assoluta. Doveva essere chiaro a tutti che «La grande bellezza» non andava toccato neanche con un fiore. Pena la morte. Stamattina, dopo la vittoria agli Oscar, un'altra romana modello curva sud ha pubblicato in bacheca (e per sicurezza stampato anche sulla mia), un faccione ghignante di Jep Gambardella accompagnato dalla seguente dicitura: «Nordisti perchè non vi ammutinate e non fate girare un altra GRANDE BELLEZZA nelle vostra anonime cittá?? L'OSCAR è di Roma una città riconosciuta in tutto il pianeta tranne che in questo Paese invaso dai Barbari».
Aaahhh, che sciocco. Ecco che cosa non avevo capito: non si stava parlando solo di un film. Per te, romano medio mio, qui è una questione d'orgojo, de campanile, de indossà 'na majetta. Stava a ggiocà 'a Roma, cor Capitano Totti, e io manco me n'ero accorto. E allora, faccela vedè, faccela toccà, 'sta grande bellezza. Stupido io, che vivo in un'anonima città del Nord e non faccio autocritica (a parte che secondo me «Il capitale umano» valeva quattro volte «La grande bellezza» ed era una spietata satira su un certo tipo di Nord, ma vabbé). Stupido io che non mi «ammutino» (ma che, vivo sur Bounty, pe' fa l'ammutinato?) e mi permetto di muovere blande critiche non a un film, ma alla grandezza di Roma in persona. Sai che te dico, romano medio mio? Roma tua me piasce da morì (vengo apposta ar Ghétto a magnà li carciofi a la giudìa, penza te), me piasce Servillo (un po' supponente, ma bravissimo), me piasce pure Sorrentino. Ma vojo conzervà er diritto, tutto mio, de potè di' si un firme me pare brutto, bbòno, oppure bbòno e sopravvalutato. Come questo. Quanno poi, nun ce potrai créde, fijo mio, ma so' pure contènto che abbia vinto l'Oscar per Le conseguenze del clamore, parafrasando Sorrentino. L'Oscar. Quello vero. E non l'Oscardabbàgno, come diresti tu facendo una battutona sdrammatizzante delle tue. Hai capito, romà? Te piasce sta dichiarazione d'amore a Rroma tua, o vòi equivocà pure questa?
Te saluto citando un vero pilastro della romanità: Gigi Proietti. Lui si che un Oscar l'ha sempre meritato. Romano mio, a volte (solo a volte) «Tu me rompe er ca'». Parecchio. Ma te vojo bbène.

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