mercoledì 13 maggio 2020

UMBERTO SMAILA: «I GATTI, GLI ANNI DI COLPO GROSSO E QUELLA LITE CON CALÀ»

Umberto Smaila.
Milano, zona Sempione. Davanti alla guardiola della portineria, un enorme mosaico con scene di caccia medioevali. Sulla parete in soggiorno, una gigantesca tela scura che pare di Caravaggio. «Dev’essere del ‘600 emiliano. Almeno così mi giurarono quando la comprai a scatola chiusa da un antiquario a Parma. Speriamo bene», dice Umberto Smaila, senza peraltro millantare competenze. Eppure dal comico-entartainer-musicista-sdoganatore del sexy soft televisivo con l’immortale «Colpo grosso», non ti aspetteresti un ambientino così.
Poi spunta la moglie, Fanny, e mentre tu non fai in tempo a rilevare che si tratta indubitabilmente di «una gran bella signora», lui ribatte a ruota, sornione: «Beh, insomma, è tutto rapportato…». Se la vuoi capire, l’autoironia è servita.

Smaila, domanda a piacere: un flash fotografico a sua discrezione su una carriera ormai lunghissima.
 «Eravamo a New York con i Gatti di Vicolo Miracoli al Michael’s Pub di Manhattan, dove andava spesso Woody Allen a suonare il clarinetto. Dovevamo incontrarlo per un progetto. Era seduto timidino a un tavolo con a sinistra Isabella Rossellini e a destra Oriana Fallaci. Si alza, ci raggiunge e ci spiazza chiedendo: “Vi piace il mio jazz?”. La buttammo sul ridere: “Sì, beh… Non male per uno che fa del cinema…”».
 Mi faccia capire: voi avete lavorato con Woody Allen?
 «La cosa alla fine non andò in porto per le solite questioni economiche. Ma il progetto e le trattative, che coinvolsero anche la Rai, erano molto avanti. Lui arrivò quasi a ultimare il terzo atto di un testo che avrebbe dovuto darci. Venne anche a Roma, con alcune curiose richieste…».
 Per esempio? 
«Doveva risultare sempre e solo il suo nome all’anagrafe, Allan Steward Köningsberg, e chiese che ad aspettarlo al suo arrivo all’aeroporto ci fossero alcune belle donne. La cosa ci stupì, anche perché non aveva fama di playboy. O forse proprio per questo le voleva. Boh».
 «Colpo grosso» fu la svolta della sua carriera. Sarebbe riproponibile, oggi, o non partirebbe neppure, soffocato dal politicamente corretto?
«Io non lo rifarei, perché mi piace l’idea che resti nel mito. E chi cerca voyeurismo ora va altrove. Ma da 16 anni, con alcuni passaggi di diritti, non ha mai smesso di andare in onda in replica; attualmente si trova su Mediaset Extra ed è un format che fu venduto in tutto il mondo dall’allora Fininvest. Le critiche delle femministe non sono mai mancate. Ma conservo recensioni entusiastiche di Placido, Del Buono e Alberoni».
Poi lo condusse anche Maurizia Paradiso, ma di lei nessuno si ricorda.
 «Per soli due mesi, poi iniziò a sproloquiare e a dire volgarità insostenibili, e fu messa da parte. Prenderla fu una scelta incauta».
Jerry Calà nel 1981 lasciò improvvisamente i Gatti di Vicolo Miracoli per fare cinema. Come la prendeste?
«Ci fu una crisi profonda; io in particolare mi sentii tradito. Con lui non ci siamo parlati per anni. Fu doppiamente cocente il dispiacere perché nel quartetto c’erano due correnti, come nella Dc: una Smaila-Calà, l’altra Oppini-Salerno. Non la mandai giù, lui era il mio sodale. Dovevamo decidere se smettere, oppure se continuare in tre. Dopo una vacanza ai Caraibi, chiamai gli altri, tornammo in pista e ci rifacemmo alla grande in tv con “Quo vadiz”, che ci fece toccare il punto più alto della nostra comicità».
E con Calà, come finì?
«Dopo cinque anni di silenzio, un comune amico fotografo, Rino Petrosino, ci riunì in un locale di proprietà di Jerry, a Verona, e siglammo a denti stretti una pace difficilissima. In seguito ho fatto tante colonne sonore per i suoi film».
Ha avuto la sua rivalsa: dopo che lei lanciò la moda delle trascinanti serate live nei locali con la sua orchestra e nei club Smaila’s, anche Calà ha iniziato a fare altrettanto, con lo stesso stile. Di fatto copiandola.
«Come disse Gesù, “Tu l’hai detto”. Posso dire che ho combattuto le discoteche, allora in voga, giocando sui lunghi medley riempipista, azzerando le pause, e tanti mi sono venuti appresso. Oggi io e Jerry ci dividiamo il mercato».
La sua serata più bella?
«Di certo la più magica fu un’improvvisazione qualche anno fa a Manhattan, da “Downtown Cipriani”, a Soho. Al tavolo con mia moglie iniziai a cantare qualcosa alla Pavarotti, poi altre canzoni. L’atmosfera si scaldò. Nel locale c’erano anche Puff Daddy, Jennifer Lopez, uno del Mossad… A un certo punto invitai tutti i commensali a prendere forchette e coltelli e a batterli sui bicchieri per fare insieme “I can’t get no satisfaction”. Poi spuntò perfino la manager dei Rolling Stones che venne a chiedere dove mi esibissi. Un delirio vero, quella notte…». 
Ha un erede artistico? 
«Mio figlio Rudy, che si esibisce con me allo Smaila’s di Milano ogni giovedì e negli altri club già aperti o ancora da aprire un po’ ovunque. Non fidandosi dei chiaroscuri dello spettacolo, di mattina fa anche il panettiere». 
Lei tiene ancora botta. Basta la salute. 
«Eh, mica tanta: mi sono rotto il femore due volte. Una diversi anni fa in un bagno turco alle Bahamas. La seconda lo scorso anno su un maledetto tapis roulant dell’aeroporto di Malpensa. La prima volta la ripresa fu veloce. La seconda no. Anche se dopo 20 giorni ero già a fare concerti sulla sedia a rotelle».
Caspita. Neanche il Numero Uno del Gruppo TNT! 
«Esatto. Oppure, se preferisce, Ironside». 
Progetti lavorativi?
«Ho scritto un pezzo che si intitola “Canto rossonero”, inno ufficiale degli ultras del Milan. Vorrei farne un cd con una specie di video corale stile “Live Aid” che metta assieme tutti i tifosi famosi della squadra: da Maldini a Boldi, passando per Abatantuono, Bisio, Scotti, Pozzetto…».
Che cosa pensa di Beppe Grillo: da entertainer a guru politico oggi a mezzo servizio?
«Credo sia un po’ bipolare, si direbbe in medicina. È un amico e un grande comico. Adesso però deve fare i conti con la storia, perché ha creato una cosa che forse non prevedeva evolvesse in questo modo».
La telefonata più inattesa della sua vita.
«Il mio agente a Roma, che mi chiamò dicendo, testuale: “Umbè, guarda che te sta a cercà Trentin Quarantino”. Al che intuii il nome, ma pensai immediatamente a “Scherzi a parte”».
Invece?
«Invece era davvero Quentin Tarantino, che aveva visto il primo film per il quale scrissi le musiche: “La belva col mitra”, del ’77, con Helmut Berger. Pellicola che faticherei a definire di serie B. Era almeno C. Si intrippò per una sequenza di sei minuti che aveva le mie note in sottofondo e la volle inserire nel suo “Jackie Brown”, dal cast stellare. Da allora prendo 2000 dollari ogni volta che nel mondo qualche rete lo manda in onda. Non mi è andata poi così male».

(DAL SETTIMANALE OGGI - GENNAIO 2019)


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