domenica 24 maggio 2020

ADDIO CESARE BARBIERI, UN COLLEGA CHE AVEVO GIUDICATO MALE

Il giornalista Cesare Barbieri.
Spesso siamo abituati (per brevità, per pigrizia mentale, perché diciamocelo: fa comodo alle nostre testacce dure) a catalogare le persone. A infilarle sbrigativamente nella scatola dei buoni o in quella dei cattivi, lasciandole lì a macerare magari per sempre e dimenticando che andiamo tutti a fasi alterne. A periodi. Che si finisce per cambiare. Che il passare del tempo non ci migliora (questo è un dato di fatto) e che gli stronzi esistono, ma che non siamo mai né del tutto buoni né completamente stronzi. Che le situazioni ci plasmano, che la vita si concede il lusso di farci viaggiare in prima classe o nella terza del Titanic. E noi finiamo con l'essere il viaggio stesso. Tanto più che dopo i 40 è tutto un andare di sfumature.

Mi ha molto colpito la morte di un collega della mia età, che conoscevo ben poco e che avevo (per qualche sguardo un po' in cagnesco e modi sbrigativi che mi aveva dedicato, un paio di volte che ci incontrammo a Pavia, tantissimi anni fa) piazzato nella scatola sbagliata. Mi accorsi dell'errore di catalogazione un paio d'anni fa, a una cena in piedi in un bel giardino pavese, dove ci ritrovammo ospiti di una comune amica. Ci fermammo a parlare come non avevamo mai fatto e fu il contrario di quel che mi aspettavo: generoso di affetto, di stima, di dettagli privati. Mi raccontò persino di una grave malattia che l'aveva tormentato per un po' e che gli stava dando tregua. Fu infinitamente gentile e molto umano. Tanto che fui costretto a dirgli: «Senti, ma ho sempre pensato di starti pesantemente sul culo, e mi ero adeguato. Adesso che cosa fai? Mi costringi a cambiare parere. Vergognati». Si rise parecchio, con la promessa di ribeccarsi «in giro» quanto prima. Quelle cose che dici e che poi non fai mai, ma che in queste circostanze si dicono sempre. Ciao Cesare, sei stato uno fra i miei più grossi errori di valutazione. Mi piace pensare a un concorso di colpa.

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