giovedì 7 maggio 2020

BEPPE VESSICCHIO * PENSIERI, PAROLE, OPERE DEL DIRETTORE D'ORCHESTRA PER ANTONOMASIA

Un’intervista con Giuseppe Vessicchio detto Peppe («Dirige il Maestro Peppe Vessicchio», ricordate la formuletta di mille Sanremo?) è una finestra sul mondo. Gli butti lì la domanda e lui si apre a un gioco affabulatorio che non puoi non contenere; sennò a Natale siete ancora lì.
Vessicchio è il colpaccio di DeAKids. La rete diretta da Massimo Bruno l’ha reclutato per debuttare come attore, nei panni di se stesso, in «Monstershop», sketch comedy per bambini in onda dal 15 dicembre tutti i giorni sul Canale 601 di Sky.
«In realtà è un cameo, una piccola parte in un episodio» dice l’interessato. «Dopo tanti anni di mestiere è stato un onore. E poi ho incontrato una squadra in grado di lavorare e scrivere testi che mi rendessero tutto molto naturale».

Aspetti che gioco il jolly: lei però nel 1982 già guidava un carro funebre in «Giggi il bullo», B-movie con Alvaro Vitali.
«Lo ammetto. Non ricordo bene se lo guidassi, ma di certo ero su quel carro. Gliene racconto un’altra che non sa quasi nessuno: ho fatto parte della primissima formazione dei Trettrè».
Il trio di cabaret?
«Sì, con Mirko Setaro ed Edoardo Romano. Poi, visto che stavo già seguendo il mio percorso musicale, a malincuore li lasciai. Entrò Gino Cogliandro al mio posto e poco dopo esplosero con “Drive in”. Fui più felice di loro perché mi sentivo maledettamente in colpa».
A quanti Festival di Sanremo ha partecipato come direttore d’orchestra?
«Venticinque. Saltandone quattro».
Un anno, quando si sparse la voce della sua assenza, ci fu una specie di rivolta popolare...
«Dopo la prima serata, nella quale non ero presente, qualcuno mise in giro la voce della mia assenza. I social esplosero, si inventarono anche l’hashtag #escilo. Quando sbucai nella seconda serata, accompagnando quella straordinaria artista che è Patty Pravo, successe ciò che non avrei mai voluto».
Ovvero?
«Lei fu presentata e prese qualche applauso. Poi, quando subito dopo fecero il mio nome, ci fu un’ovazione. Ero imbarazzatissimo, cercai il suo sguardo, la indicai per provare a dirottare a lei quel tributo. Ma Patty capì, sorrise, fu molto comprensiva».
Che cos’è Sanremo?
«Uno spettacolo sempre più televisivo, dal quale la tv ricava oggi il massimo degli introiti. I dischi, del resto, non si vendono più. Sanremo è tante aree: quella dei discografici, quella dei televotanti… Per esempio: nel 2009 Marco Carta vinse con 10 volte i televoti del secondo classificato. La maggior parte dei quali dalla Sardegna. Si può dire che fu la Sardegna a decretare la vittoria di Sanremo».
Poi c’è l’area della spesso criticata «Giuria di qualità», perché ospita chiunque.
«Ecco, io sorrido quando alcuni cantanti soffrono per i bassi voti dati dalla cosiddetta “Giuria di qualità”. Se fra i giurati ci sono, mettiamo, Rocco Papaleo e Milly Carlucci, sarà solo il rispettabile parere di Papaleo e Carlucci. Non facciamone un dramma. La chiamino “Giuria Vip”, sarebbe più coerente. E non parliamo della prima fila».
Che cosa intende?
«L’intoccabile prima fila del Teatro Ariston: una vetrina per funzionari, dirigenti, politici, volti della rete… Uno spazio promozionale. Del resto la Tv è una categoria a parte».
L’ossessione dei nostri tempi, oggi un po’ scalzata dal web.
«Ritengo che per chiarezza a ogni mestiere esposto in video andrebbe aggiunto il suffisso tv: conduttore tv, giurato tv, chef tv… Anche un Maestro di musica che va in tv non è un vero maestro».
Autocritica?
«Direi piuttosto correttezza nei confronti dello spettatore».
Dietro le quinte dell’Ariston lei ne ha viste di tutti i colori.
«1996. Al Festival partecipavano Elio e le Storie Tese con “La terra dei cachi”. Il regolamento di una serata prevedeva che tutti i concorrenti eseguissero il loro pezzo live in una versione condensata di un minuto. Elio si rifiutò per preservare l’integrità della creazione. Era irremovibile. Baudo, col suo vocione: “Come lo fanno gli altri, lo faranno anche loro!”. Scintille. A Elio venne l’idea di velocizzare l’intero brano talmente tanto da portarlo da tre minuti a uno. La follia piacque a Baudo, che si placò e la tenne segreta fino alla fine».
Pippo trasformò un conflitto in un’opportunità.
«Baudo partecipava a tutte le prove dall’inizio alla fine. Fu lui ad aggiungere il pezzetto finale, mancante, a “Con te partirò” di Bocelli. Aveva una cura tale del Festival che, mi spiace per i vari Conti, Fazio, eccetera, non si è mai vista a Sanremo e credo mai si rivedrà».
Al prossimo la rivedremo con Baglioni, quindi.
«Se il mio apporto sarà richiesto, sì. Claudio è un perfezionista. Uno che da una tappa all’altra di un tour trova ogni volta un dettaglio da migliorare».
Lei ha scritto con Gino Paoli un capolavoro della canzone leggera italiana: «Ti lascio una canzone». Che tipo è Paoli?
«Un padre. Ma di quelli particolari: non lo senti per una vita, lo chiami e l’unica frase dall’altra parte è: “Eh, siamo qua…”. Non si pretende, per carità, però lui è così. Lo definirei un gattone un po’ stronzetto».
La proverbiale asciuttezza del ligure?
«Ecco, sì. Mettiamoci anche quello. Poi magari si  sblocca e non finiremmo mai di parlare».
Lei ha collaborato anche ad «Amici» di Maria De Filippi. Come lavora Queen Mary?
«È una persona corretta e determinata che ha in testa un’idea precisa di ciò che vuole e fa tutto ciò che può per ottenerla. Anche rimettendoci di tasca propria».
Beh, per forza: con la sua società, la Fascino, si autoproduce e vende poi il tutto a Canale 5.
«Sì, ma in ogni programma esiste comunque un budget. Se la produzione la avvisa che il budget della puntata è stato sforato e lei ritiene che un ospite vada ingaggiato comunque, ti dice: “Ok, i soldi mancanti li metto di tasca mia”. Non è da tutti. Se questa determinazione fosse applicata non alla tv, ma alla collettività, al sociale…».
Sbaglio, o sta suggerendo alla De Filippi di entrare in politica?
«Sì, lo dico apertamente. Credo che se questo suo modo virtuoso, caparbio ma onesto di affrontare qualsiasi progetto nel quale è coinvolta fosse applicato alla politica, tutta la collettività ne trarrebbe giovamento».
L’artista più pignolo col quale ha lavorato.
«Mario Biondi. Rifà il pezzo cento volte e alla successiva aggiunge, se possibile, un nuovo preziosismo».
E Antonacci?
«Un giocherellone. Una volta in diretta a Sanremo per smorzare il carico di tensione di Biagio facemmo uno scherzo a Baudo facendogli dei gesti con la mano per fargli credere di avere qualcosa sul viso. Baudo provò a ripulirsi senza farsi inquadrare».
Senta, quando incontra un rapper, che cosa fa: tira fuori l’aglio e il paletto di frassino?
(ride). «Alcuni generi non sono al massimo del mio gradimento, lo confesso. D’altra parte Jovanotti con “Non m’annoio” ha fatto cose buone. E di forme embrionali di free style si trova traccia in musica già nel 1830. Però è difficile prescindere dalla melodia, e il difetto del rap è la fissità. Non vedo un’evoluzione e mi preoccupano questi ragazzi che spendono tempo per qualcosa che è destinata a restare ferma lì».
(DAL SETTIMANALE OGGI - NOVEMBRE 2018)

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