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lunedì 10 gennaio 2022

SILVIA ED ENZO TORTORA * L'INGIUSTIZIA FA MALE DUE VOLTE

Da sinistra, Silvia con il papà Enzo Tortora e la sorella Gaia, che lavora nel Tg di Enrico Mentana.

A 59 anni, è morta Silvia Tortora. A sinistra in questa foto con papà Enzo e l'altra sorella, Gaia, che è oggi un volto del TgLa7.
Negli anni del mio lavoro al «Giornale» parlai due volte con Silvia, che sentiva (assieme alla sorella del conduttore, Anna, co-autrice di Portobello) il peso enorme del fango giudiziario che si abbattè sul padre per colpa di alcuni pentiti e magistrati quantomeno frettolosi. Erano due combattenti per la verità, Silvia e Anna, e sono felice di aver potuto dare voce in quel periodo alla sofferenza di una famiglia perbene che rimase troppo segnata. E raccontare infine la sentenza che ha portato alla piena assoluzione di Enzo Tortora. Perché quando la Giustizia diventa ingiustizia, fa male due volte.

venerdì 18 giugno 2021

MICHELE MERLO * ECCO IL SUO ULTIMO AUDIO MESSAGGIO

Quello che segue è il saluto alla stampa dei genitori di Michele Merlo, i quali oggi, giorno dei funerali del figlio, morto a 28anni, all'improvviso, per un male incurabile, hanno diffuso un suo toccante audio messaggio che trovate nel video qui sopra. Un'occasione per riflettere e per non dimenticare la profondità e l'intelligenza del giovane cantante lanciato da Amici.

Buongiorno a tutti,

abbiamo, sino ad oggi, comunicato per lo più attraverso i nostri consulenti e legali che continueranno a farlo di nuovo da domani, tranne qualche piccolo sfogo da genitori sofferenti e provati da un immenso dolore che sappiamo già non avrà mai fine. Ma oggi vogliamo parlare noi, vogliamo consegnare, io e Katia, mia moglie, una preghiera a tutti voi…
 
Michele è nostro figlio ma è anche il vostro artista, l’artista molte volte incompreso e da alcuni dimenticato, l’artista con dentro un tormento di emozioni che ha saputo sfogare con le sue canzoni, perché solo così sentiva di essere Michele.
 
Per prima cosa vogliamo ringraziare tutti, senza tralasciare nessuno, in particolare voi che darete voce a Michele per sempre.
 
Oggi, alle h.17, gli daremo tutti insieme l’ultimo saluto e chi lo vorrà potrà pubblicare questo video messaggio che lui ha dedicato prima di tutto a se stesso e che siamo sicuri sognasse di condividere anche con voi. Per chi vuole ci piacerebbe che lo pubblicaste e diffondeste proprio alle 17, così io e mia moglie ci sentiremo meno soli.
 
“Abbiamo il cuore stanco di chi la vita l’ha rincorsa…perché per dire la verità ci voleva forza...e ti ritrovi solo con i pugni nelle mani…e un giorno troveremo pure pace e sarà più semplice di quello che crediamo basterà accettare il buio...viviamo, ricordiamo, soffriamo per sempre come rondini nel temporale…”

Grazie! 
Katia e Domenico

giovedì 26 novembre 2020

IL FIGLIO DI MARADONA: "PER MOTIVI DI SALUTE NON POTRO' ANDARLO A SALUTARE"

Diego Armando Maradona Junior, il figlio del grande campione scomparso ieri, è intervenuto a “Più o meno”, il programma di approfondimento giornalistico condotto da Sabrina Giannini, che andrà in onda questa sera, 26 novembre alle 23.40, su Rai2. Nel corso del suo intervento ha dichiarato: “Io avevo un rapporto costante con lui, ci sentivamo spesso… ci eravamo parlati subito dopo l’operazione, avevamo fatto un videochiamata. È una notizia che mi ha lasciato senza parole. Io ero ricoverato in ospedale e ho appreso la notizia dalla televisione. È iniziato il tam-tam delle telefonate e alla fine mi hanno confermato che, purtroppo, non ce l’aveva fatta. 

Io avevo fatto una videochiamata e lui stava molto bene: scherzava, rideva… e infatti ero molto contento che avesse superato quest’ennesimo ostacolo. Quello che è avvenuto dopo l’operazione è che stava andando anche abbastanza bene… è stata una cosa così, purtroppo. Mi mancheranno le risate, i bei momenti che abbiamo passato insieme mi piace pensare che il capitano del mio cuore non morirà mai e sono certo che sarà sempre vivo nel mio cuore. I medici mi hanno proibito di prendere un aereo perché i miei polmoni non resisterebbero agli sbalzi di pressione e a malincuore devo accettare anche quest’altra sofferenza che la vita mi sta mettendo davanti”.

lunedì 2 novembre 2020

ARBORE, SALEMME E GOGGI SU PROIETTI: «PILASTRO DELLO SPETTACOLO, PAGANINI, L'ETICA DELL'ATTORE»

Renzo Arbore e Vincenzo Salemmo ricordano Gigi Proietti.

RENZO ARBORE:
 
«Ci sono dei personaggi che non sono dei semplici attori o intrattenitori o registi o cantanti o umoristi, ma sono degli autentici pilastri dello spettacolo. Gigi Proietti è uno dei pilastri sui quali si reggeva lo spettacolo italiano, tutto lo spettacolo italiano. Si ricorreva a lui quando bisognava celebrare l'antica Roma, come ha fatto la saggiamente Alberto Angela e si ricorreva a lui per raccontare una facezia romana dei borghi, si ricorreva a lui quando si voleva cantare una canzone meravigliosa, o quando si voleva fare una risata, ma anche quando si doveva pensare o si voleva chiedere un parere sulla società civile o sullo spettacolo.

Gigi è stato il più eclettico artista della sua generazione. L'idea di intestargli il Teatro Brancaccio mi sembra assolutamente un'idea da sposare. Gigi per il teatro e per la diffusione del teatro ha fatto veramente quanto non sono riusciti a fare altri: dalla regia, alla direzione, alla scoperta di nuovi talenti. E' difficile elencare i meriti di una personalità così eclettica come quella di Gigi Proietti. Per me, diciamo, provinciale foggiano trapiantato a Napoli, Gigi personificava Roma, la sua grandezza, la sua bellezza e il suo spirito, la sua cultura. E' l'erede veramente di grandissimi come Aldo Fabrizi, Alberto Sordi. Erede dell'umanità, del disincanto romano, delle qualità dell'ospitalità e dell'accoglienza che i romani hanno tra le proprie caratteristiche. 

E' inutile elencare le malefatte fatte insieme, ha partecipato perfino al mio mio film FF.SS. dopo che io ho partecipato a quasi tutti i suoi programmi televisivi di varietà, ricordando vecchie canzoni, e lui è stato protagonista di molti miei programmi televisivi, sempre con un'idea vincente. Tra i miei ricordi più belli c'è la sua partecipazione a "Meno siamo, meglio stiamo" dove veramente ha sintetizzato quella parte dello spettacolo leggero che lui condivideva insieme allo spettacolo importante del quale è sempre stato rappresentante. Capisco che ogni giudizio su Gigi è riduttivo in questo momento, effettivamente lo shock è stato violentissimo per me. Accanto all’intesa artistica c’è un’intesa umana che è stata fondamentale nella mia carriera, con lui e con la sua famiglia. Eravamo amici confidenti».

VINCENZO SALEMME: «Caro Gigiti scrivo qualche riga quando ancora non so se sarà consentito venire a darti l’ultimo saluto. Non ti vedevo da un anno. In una trasmissione televisiva mi avevi raccontato la tua volontà di prendere in gestione un teatro. E volevi farlo insieme a me. Per me sarebbe stata un’avventura entusiasmante. Fare teatro accanto al più luminoso dei Giullari. Sei quello che meglio di tutti ha saputo spazzare via quelle stupide etichette dei tempi moderni, che dividono gli artisti in “alti” e “bassi”, profondi e superficiali, popolari e di élite...

Avevi un rapporto con il pubblico che non era mai falso, manifestavi ciò che eri. Perché un attore, prima di tutto, deve essere onesto. Questa è l’etica di un vero attore. Tu ogni volta facevi un patto con il pubblico: facciamo finta che io sia... E così diventavi re Lear o Mandrake, un cantante maestoso o un menestrello, raccontavi una barzelletta o recitavi un sonetto del Belli. Il pubblico, con te, non era mai passivo, era essenziale, non ti guardava dal buco della serratura come accade nei reality, era in teatro con te e sceglieva il luogo con te, viveva il racconto con te. Avevi una quantità infinita di talento e, grazie al cielo, ce ne hai fatto dono. Di solito non mi piace usare il termine popolo a sproposito ma nel tuo caso è giusto e doveroso dire che il popolo te ne sarà grato per sempre e non ti dimenticherà mai.

Perché se Attore è anagramma di Teatro, tu ne sei stato l’esempio più nobile».

LORETTA GOGGI: «Dal pestifero Titti all’indomabile Gatto Silvestro: se è vero che mi hai definito uno Stradivari, è altrettanto vero che tu sei stato e rimarrai per sempre il “Cannone” di Guarneri del Gesù di Paganini e Paganini stesso messi insieme! Mi lasci insieme a Sagitta, Carlotta, Susanna, ai tuoi amici e al tuo sconfinato pubblico, orfana del tuo amore, del tuo affetto, della tua straripante  bravura.  Grande in tutto, Gigi caro, anche nell’insegnare, nel trasmettere, senza avarizia alcuna,  ai tuoi allievi, oggi affermati numeri uno, impostazione, dizione, tecnica e segreti della tua arte. Mi hai riportato a recitare, volendomi accanto a te, in teatro, nel 1981, condividendo per la prima volta il palcoscenico con qualcuno. Noi due (tu anche  meraviglioso regista!), da soli, in “Stanno suonando la nostra canzone”, un successo da brivido per me che venivo da Sanremo, che avevo rifiutato, per lavorare con te, il mio secondo Fantastico...  quanto ti devo anche per questo!

Ora non mi resta che unirmi, nello sconcerto di saperti nato al cielo, a tutte le voci del mondo dello spettacolo e al tuo pubblico sterminato  nel gridare a squarciagola perché ti arrivi fin lassù: GRAZIE, GIGIIIII!!!!».

ADDIO GIGI PROIETTI, IL GHIGNO BEFFARDO DEL TALENTO ASSOLUTO


Gigi Proietti
non faceva uno spettacolo. Gigi era lo spettacolo. Tout court. Quando si trovava in scena, su qualsiasi palco, polverizzava in un istante il resto e tutti coloro che – disgraziatamente per loro - gli si trovavano attorno. Diventavano accessori. Non certo per una sua volontà accentratrice (era generosissimo con i comprimari), ma con la forza di un talento assoluto, bruciante, definitivo. Di quel sorriso che diventava ghigno e poi si spegneva in un istante per farsi caricatura, sfottò, balbuzie, stupore, pernacchia. Di un carisma che si portava appresso con una disinvoltura che nessun’altro aveva. È come se si portasse appresso un occhio di bue (la luce tonda e potente che illumina il centro del proscenio) permanente, anche nella vita.
È entrato nella storia del teatro leggero per una marea di motivi, ma piace ricordarlo soprattutto quel «Nu me romp’ er ca’» che era la canzone/tormentone che prendeva mirabilmente in giro gli chansonnier esistenzialisti francesi. Nel 2006 pubblicai per Mondadori «Il peggio della diretta», un volumetto di racconti di sapidi dietro le quinte dello spettacolo raccontati dagli stessi protagonisti. Mi fece l’onore di regalarmi un paio di perle raccontate alla sua maniera, e per questo non finirò mai di ringraziarlo.
Famoso per la mandrakata di «Febbre da cavallo», film che uscì in sordina e che diventò col tempo oggetto di culto pagano, Proietti era molto altro. Poteva recitare qualsiasi cosa (e lo dimostrò nell’interminabile serie di spettacoli di «A me gli occhi, please»), ma non disdegnava neppure le barzellette, all’occorrenza. Con un modo sempre lieve di prendere e mettere in scena la vita, senza mai prendersi e prenderla troppo sul serio. Ebbe una scuola di teatro e alcuni pallidi imitatori di uno stile purtroppo inimitabile.




domenica 24 maggio 2020

ADDIO CESARE BARBIERI, UN COLLEGA CHE AVEVO GIUDICATO MALE

Il giornalista Cesare Barbieri.
Spesso siamo abituati (per brevità, per pigrizia mentale, perché diciamocelo: fa comodo alle nostre testacce dure) a catalogare le persone. A infilarle sbrigativamente nella scatola dei buoni o in quella dei cattivi, lasciandole lì a macerare magari per sempre e dimenticando che andiamo tutti a fasi alterne. A periodi. Che si finisce per cambiare. Che il passare del tempo non ci migliora (questo è un dato di fatto) e che gli stronzi esistono, ma che non siamo mai né del tutto buoni né completamente stronzi. Che le situazioni ci plasmano, che la vita si concede il lusso di farci viaggiare in prima classe o nella terza del Titanic. E noi finiamo con l'essere il viaggio stesso. Tanto più che dopo i 40 è tutto un andare di sfumature.

Mi ha molto colpito la morte di un collega della mia età, che conoscevo ben poco e che avevo (per qualche sguardo un po' in cagnesco e modi sbrigativi che mi aveva dedicato, un paio di volte che ci incontrammo a Pavia, tantissimi anni fa) piazzato nella scatola sbagliata. Mi accorsi dell'errore di catalogazione un paio d'anni fa, a una cena in piedi in un bel giardino pavese, dove ci ritrovammo ospiti di una comune amica. Ci fermammo a parlare come non avevamo mai fatto e fu il contrario di quel che mi aspettavo: generoso di affetto, di stima, di dettagli privati. Mi raccontò persino di una grave malattia che l'aveva tormentato per un po' e che gli stava dando tregua. Fu infinitamente gentile e molto umano. Tanto che fui costretto a dirgli: «Senti, ma ho sempre pensato di starti pesantemente sul culo, e mi ero adeguato. Adesso che cosa fai? Mi costringi a cambiare parere. Vergognati». Si rise parecchio, con la promessa di ribeccarsi «in giro» quanto prima. Quelle cose che dici e che poi non fai mai, ma che in queste circostanze si dicono sempre. Ciao Cesare, sei stato uno fra i miei più grossi errori di valutazione. Mi piace pensare a un concorso di colpa.

lunedì 11 maggio 2020

ADDIO ALBERT ONE: CON «TURBO DIESEL» FU IL PIONIERE DELL'ITALO DISCO

È morto Alberto One, Alberto Carpani.
Partendo dall'operosa e (all'epoca) esaltante provincia, con la console sempre sotto mano e le casse tirate a palla, fu un alfiere (anzi, un pioniere) della dance Anni 80, che lo vide spopolare con il brano «Turbo Diesel».

Albert One, all'anagrafe Alberto Carpani, è morto stanotte, a 64 anni, alla clinica Maugeri di Pavia a seguito del sopraggiungere di complicazioni cardiache e polmonari in un quadro clinico già molto complesso. Sofferente di diabete e in cura con l'insulina, il cantante  era da tempo su una sedia a rotelle. Proprio nei giorni scorsi aveva postato sulla sua pagina Facebook un paio di immagini dal suo letto d'ospedale: una nella quale era attaccato a un respiratore per carenza d'ossigeno, e un'altra dove appariva sorridente, attorniato alcuni operatori sanitari. Sembrava essersi ripreso, insomma. Invece le cose sono peggiorate, a sorpresa, la notte scorsa, e dopo aver lottato sino alla fine, assistito dalla compagna Rosy, non ce l'ha fatta. È bene chiarire che aveva effettuato di recente due tamponi di controllo, riferiscono gli amici, senza mai risultare positivo al Covid-19.
Una recentissima foto di Albert One postata sulla sua pagina Facebook dall'ospedale dov'era riceverato.
Pavese di città, prodotto dal leggendario Roberto Turatti prima come Jock Hattle (nome col quale nel 1982 incise un dimenticato brano scritto da Enrico Ruggeri, «Yes-no family»), nel 1983 «AlbertOne», con la sua imponente stazza che era già tutto un programma, esplose a livello europeo con «Turbo Diesel», inciso per l'allora dominante Baby Records. Etichetta che era una garanzia. Sono gli anni ruggenti della spaghetti disco, che sforna un cantante al mese (in genere con i nomi più strampalati: si pensi a Gazebo che si chiama Paul Mazzolini) con relativo singolo pronto a spopolare in classifica. Anni in cui i dischi si vendevano davvero, peraltro. 
Da sinistra, Gazebo e Albert One.
Quando il successo ti casca addosso in modo così repentino e bruciante, è difficile restare lassù e starci per giunta comodi. Per questo Carpani, che aveva una band e si era trasferito a Giussago, iniziò a darsi da fare anche come produttore, anche per gente come Cuccarini, Parisi e Carrà. Il pop frizzantino all'epoca aveva del resto la sua spendibilità.
Il cantante Albert One ci riprovò invece prima con brani come «Heart on fire», «Lady O», «Secrets», «Mandy», spopolando soprattutto nelle serate disco in giro per l'Italia, e nel 1999 con un pezzo che gli diede ancora qualche soddisfazione: «Sing a Song Now Now»
Ma l'accelerazione di quel «Turbo Diesel» era purtroppo ormai difficile da riprodurre. E Alberto, che conoscevo abbastanza bene e che dietro le quinte passava dall'amabilità più totale al divertito cinismo tipico da mondo dello spettacolo, passò gran parte della sua vita a tentare di risentire ancora quel suono. Che era poi quello, impagabile, degli applausi e delle ovazioni. Di una platea osannante che da un po' forse gli mancava.

giovedì 20 dicembre 2018

ANDREA G. PINKETTS E QUEL SERVIZIO CHE NON GLI MANDARONO MAI IN ONDA

È morto lo scrittore Andrea G. Pinketts
Ho due ricordi di Andrea G. Pinketts, il beffardo, ironico giallista milanese che un cancro si è portato via oggi ad appena 57 anni.
Il primo fu un blitz in un locale notturno della Milano già non più tanto da bere (ma lui beveva, eccome se beveva, gli spiriti erano il suo carburante), e me lo ritrovai seduto a un tavolo già vistosamente brillo insieme con Franco Califano. Vi rendete conto? L'accoppiata delle accoppiate: satana e il demonio. Il tempo di una foto con loro (impossibile da non fare, l'occasione era troppo ghiotta), e me ne andai.

L'altro è un momento amaro, legato a un programma di Canale 5 al quale collaborai parecchi anni fa: «Sali e tabacchi». Pochi se ne rammentano: andava il sabato notte, dopo «Ciao Darwin». Confezionavo servizi con personaggi di costume e spettacolo coprendo, come si dice in gergo, la metropoli. Il tema della puntata mi parve congeniale, così proposi alla redazione un'intervista a quell'istrione di Pinketts. Poteva sembrare scorbutico, sulle prime, ma in fondo era un pezzo di pane. Quando lo incontravi ti prendeva al volo le misure, ti fiutava, e se intuiva di potersi fidare, ci andavi d'amore e d'accordo.

La proposta fu approvata (non dico da chi, preferisco lasciarlo nell'oblio), e io mi presentai con una troupe al seguito al Trottoir, ancora in zona Garibaldi, il locale che il reuccio del noir aveva eletto a sua "sede" naturale, il suo guscio protettivo. 
Mi accolse festante nel primo pomeriggio, già adeguatamente imbenzinato, per garantire la prestazione, e cercò di capire: «Ma sei sicuro che proprio lui, quello là, ti abbia approvato il servizio con l'intervista a me?», fece lui diffidente. «Te lo garantisco, lui», gli risposi. 
«Mah, mi pare molto strano: gli sto parecchio sul cazzo, però se lo dici tu...». 
Registrammo per almeno due ore (era un programma strano), Pinketts si prestò a fare, rifare, inventare. Con generosità. 
Alla fine si scoprì che aveva ragione lui, perché quel sudatissimo servizio non andò mai in onda. Colui che aveva accettato la mia proposta, aveva sadicamente deciso di mandare me (e una troupe) a fare il pezzo, impegnare Pinketts nella registrazione, illuderlo, e imporgli poi l'umiliazione dell'oblio, del servizio cassato. Credo una tra le più grosse carognate che si possano fare a una persona. Ma se ti imbatti in uno stronzo caramellato, c'è poco da fare.

venerdì 30 novembre 2018

È MORTO SANDRO MAYER, IL PRINCIPE DEL GIORNALISMO TRASH

È morto il giornalista Sandro Mayer.
I suoi parrucchini diventati leggenda (aveva il vezzo di cambiare fotina quasi ogni settimana anche sulla cover del suo giornale, «Di Più»); gli scazzi privati; il piglio bonario in pubblico. Uno stile giornalistico che aveva fatto del trash una sorta di forma d'arte per cultori.

È morto a 77 anni il piacentino Sandro Mayer, un pezzo di storia del giornalismo leggero e gossiparo italiano. Uomo di ferro in redazione (non pochi ne hanno subito e raccontato le gesta), e pacato commentatore in tv. Tranne negli epici scontri con Selvaggia Lucarelli (che a lui non si piegava) nella giuria di «Ballando con le stelle».

Mayer aveva il gene del pop-trash. Sapeva mescolare allegorie su Padre Pio (presente credo in ogni numero delle sue riviste) e la ricetta del petto di pollo alla piastra fatto da Elisabetta Canalis. Vecchine vip e cagnetti (vip) malati. Una fantasia senza limiti. Un giornalismo popolare, caratterizzato anche da una grafica dubitabile, da colori sparati e da una scelta fotografica che a volte faceva accapponare la pelle ai puristi; e che però funzionava. Eccome. Era diventato esso stesso ricetta, segreto del cuoco. A suo modo format. Complice anche il prezzo altrettanto abbordabile del prodotto. 

Laureato in Scienze Politiche, Mayer aveva diretto «Dolly», «Novella 2000», «Epoca», «Gente», lanciando poi, dopo l'ingresso nel mondo di Cairo Editore, anche «Di Più Tv», la propaggine di «DiPiù» dedicata ai palinsesti televisivi. 
Conosco fior di direttori che la notte non riuscivano a prendere sonno perché col doppio dei suoi mezzi (e sfornando giornali eleganti) non riuscivano a fare la metà delle sue tirature. Perché  quel prodotto non era nelle loro corde e mancava loro il genio di saperlo fare.
Sandro Mayer, va e insegna agli angeli a portare il parrucchino. Comunque la si pensi sul suo conto, un uomo di talento.

martedì 27 marzo 2018

FABRIZIO FRIZZI * UNO CHE NON HA MAI VENDUTO AL PUBBLICO MERCE AVARIATA

L'addio a Fabrizio Frizzi. Domani a Roma i funerali, alle 12, nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo.
Mia madre che ieri mi telefonava piangente parlando della sua morte. Ovunque sui social, Facebook prima di tutto, testimonianze di affetto vero, sincero. Perché questo di lui passava, in pienezza, dallo schermo. Era nella vita come lo vedevi là dentro, in 16:9. 
E il pubblico lo capiva perfettamente. Altri manichini pubblici o della tv bluffano e a telecamere spente diventano mezzi mostri («Striscia la notizia» ne ha mostrati alcuni) ma spesso riescono a farsi percepire come brave persone.

Fabrizio era così e quel Fabrizio arrivava. È stato il suo maggior successo personale e professionale, a mio avviso. Da una vita la gente che incontro mi chiede: «Ma com'è davvero tizio? Com'è veramente quell'altra?». Di lui ho sempre parlato bene, perché non poteva essere altrimenti.
Riflettevo sul fatto di lasciare un segno nella vita. Ecco, lui ci è riuscito. Ed è riuscito a farsi amare senza vendere al pubblico merce avariata.

lunedì 26 marzo 2018

ADDIO A FABRIZIO FRIZZI, IL BUONO DELLA TV COL "COMPLESSO" DELLA BONTA'

La morte di Fabrizio Frizzi.
Fabrizio Frizzi si è spento nella notte, all'ospedale Sant'Andrea di Roma, per un'emorragia cerebrale. Aveva 60 anni, e nell'ottobre scorso, negli studi Rai dove registrava «L'Eredità», fu colpito da un grave malore. Da allora combatteva, in silenzio, e sempre sorridendo (com'era nel suo stile) una battaglia difficile.
Lascia la moglie Carlotta Mantovan e la figlia Stella. La camera ardente sarà aperta al pubblico domani, martedì 27 marzo, nella sede Rai di Viale Mazzini 14 dalle ore 10 alle ore 18. I funerali del conduttore si terranno mercoledì 28 marzo alle ore 12 nella Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo.
Sono tantissimi i ricordi personali che mi legano a Fabrizio: tante interviste, la sua privacy difesa sempre in modo strenuo, senza la smania di finire sui giornali, e un certo caratterino (un puntiglio) di fondo che non traspariva dall'aria bonacciona - comunque assolutamente reale anche nella vita - che portava in video. Eravamo amici, ma abbiamo anche "scazzato" un paio di volte. Come succede a tutti gli amici.
La prima tanti anni fa, quando scrivevo per «Il Giornale» e lui faceva coppia con Rita Dalla Chiesa. In una rubrica feci una battutina su di loro (manco me la ricordo), e lui ogni tanto ancora mi rinfacciava quel momento. Poi di recente, per un testo da includere nel mio libretto, «Il peggio della diretta». Rispettai, ovviamente e com'è giusto, la sua tignosa volontà.
Con gli anni mi sono fatto l'idea che questo assoluto professionista dello spettacolo, con un legame orgoglioso e inscindibile con la Rai, capace di passare indenne con alti e bassi stagioni e stagioni di Viale Mazzini stando sempre lontano dalla politica, avesse un po' il complesso della sua bontà mediatica. Di quest'immagine da «Frizzolone», come l'avevano battezzato, da eterno buono della tv. Ogni tanto sentiva la necessità di tirare fuori gli artigli, per compensare. Per dimostrare di non essere soltanto quella cosa là, ma anche un uomo di polso. E in quei momenti non lo riconoscevi. Invece ridemmo come scemi quando gli segnalai un conduttore di seconda mano che stava provando a fargli le scarpe, nascostamente, nei meandri della Rai. E così pure a una cena a Forte dei Marmi, deve fu prodigo di aneddoti e battute.
Una volta, non molto tempo fa, mi disse: «Sai che vorrei fare uno spettacolo teatrale con le tue battute e le riflessioni che metti su Facebook? Una specie di lungo monologo con canzoni. Tienimi via un po' di cose. Alcune me le sono già segnate io»
Ciao Fabrizio, sarebbe stato bello: purtroppo non abbiamo fatto in tempo.

mercoledì 24 gennaio 2018

ADDIO MICHELE MONDELLA, UN PR DI SPETTACOLO COME NON NE FANNO PIU'

Michele Mondella.
Visto che nell'ambiente abbondano gli impresentabili, quando si può fare qualche scrematura (ricordando uno perbene) è un doveroso piacere.

A 70 anni, se n'è andato Michele Mondella. Un nome che a tanti di voi probabilmente non dirà nulla. Ma dice molto (in fatto di modi, stile e maniere) per chi lavora da sempre nell'ambiente dello spettacolo.

Michele è stato lo scrupoloso, attento ed educato Pr discografico che ha contribuito al successo di Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, e una marea di altri artisti. Ultimamente era un po' fuori dai giochi, e li guardava con perplesso distacco, ma sempre con l'occhio del professionista scrupoloso.

Quando iniziai a scrivere di musica e tv la sua rassicurante voce fu tra le prime che sentii al telefono. Michele aveva il vezzo (molto antico) di essere competente ed educato. Trattava grandi artisti ma senza spocchia: era sempre rispettoso del lavoro di tutti, e soprattutto di quello giornalistico. Oggi è la fiera degli addetti stampa arroganti (non tutti, beninteso, ma parecchi) che ricattano e pongono condizioni. Interviste a pacchetti 3x2 o 9x3. Cialtronate che molti subiscono.

Michele (altri tempi) era uno che lavorava con te. Non al tuo servizio, ci mancherebbe, ma insieme, conscio del fatto che addetti stampa e giornalisti fanno due lavori ben diversi. Uno promuove, l'altro deve informare il lettore con scrupolo, opinioni personali e correttezza. Le due esigenze devono incontrarsi a metà strada con trasparenza e senza troppi inciuci, che Michele non ha mai cercato. Perché se tutto diventa marchetta, signori miei, possiamo chiudere bottega.

lunedì 17 luglio 2017

ADDIO MARTIN LANDAU, SULLA LUNA DI «SPAZIO 1999» SEI STATO IL PIU' FIGO DI TUTTI

È morto Martin Landau, il Comandante Koenig di «Spazio 1999».
All'epoca circolava una battuta che aveva il suo perché: «Il comandante Koenig? Sì sì, è bravo, per carità, ma non è certo un'Aquila». Con palese riferimento alle suggestive navicelle della Base lunare Alpha di «Spazio 1999», la più intrigante serie tv vintage su spazio e dintorni, ideata nel 1973 da Gerry e Sylvia Anderson.
Adesso che Martin Landau se n'è andato, a 89 anni, in un ospedale di Los Angeles, e con lui una bella fetta della nostra adolescenza, possiamo dirlo: anche se all'epoca sembrava monoespressivo (ma le sue doti recitative si sono parecchio affinate col tempo, sino all'Oscar per il ruolo di Bela Lugosi in «Ed Wood», nel 1994), Landau è stato di gran lunga il più figo di tutti. 


Maya, Helen Russell e il Comandante Koenig.
Innamorato senza darlo troppo a vedere della dottoressa Helen Russell (Barbara Bain), Koenig, occhi blu e faccia sempre pronta al terrore, era protettivo nei suoi confronti e in quelli di tutto l'equipaggio della Base che dirigeva, finita a perdersi nello spazio dopo una devastante esplosione. Tra invasioni di mutanti, trasmutanti, creature aliene e quanto di più orrorifico gli effetti speciali dell'epoca consentissero, i nostri alla fine portavano sempre a casa la pagnotta e la pellaccia, finendo col bersi tutti insieme ridendo un bicchiere di sgravevole birra prodotta in cattività dal più creativo (e dileggiato) del gruppo.

Parliamoci chiaro: «Spazio 1999» è stato grande nella prima stagione, quella dove compariva il saggio e vecchio scienziato e dove la (pseudo)scienza e la credibilità avevano la meglio; anche la sigla originale era straordinaria. Nella seconda, all'arrivo di Maya, si sono persi rigore e pathos che contraddistinguevano la prima stagione, e si è finito con l'annacquare un po' il tutto. A me piaceva molto meno. Per non parlare della ridicola sigla italiana.
Per anni ho sognato di possedere la pistola laser a ferro di cavallo impugnata dal Comandante Koening e da tutti quelli della base lunare Alpha. Se arrivava il cattivo-cattivo, non serviva a niente. Ma per le piccole necessità, era una mano santa.



martedì 23 maggio 2017

BYE BYE ROGER MOORE, ORA «ATTENTI A QUEI DUE» TU E CURTIS LO GIRATE IN PARADISO

Roger Moore e Tony Curtis in «Attenti a quei due».
Hai voglia a ricordarlo per gli 007 (il mio sette volte James Bond preferito, meno scattante di altri ma più ironico, più British, anche se so che molti hanno nel cuore, inestirpabile, Sean Connery). Hai voglia a tirare in ballo «I quattro dell'oca selvaggia», «Sherlock Holmes a New York», «Ivanhoe», «Il Santo», «Simon Templar» o «La corsa più pazza d'America».
Per me Roger Moore, Sir Roger Moore, che se n'è andato oggi a Crans-Montana, in Svizzera, a 89 anni, dopo breve malattia, è stato soprattutto la magnificenza di «The Persuaders!», serie arrivata in Italia con il titolo di «Attenti a quei due». La sigla indimenticabile è qui in fondo.


Insieme con Tony Curtis (col quale si è ora idealmente riunito, non si sa se in Paradiso o altrove ai piani più bassi, in qualche set più al calduccio) ha dato vita a un capolavoro che riempì i miei pomeriggi di ragazzo dal 1974 all'81 sulla prima rete Rai. Roger era Lord Brett Sinclair, inglese sveglio e azzimato ma con la passione per gli intrighi, e Tony il miliardario americano Danny Wilde, amante delle donne, delle corse e guascone al punto giusto. Con un filo di vena apparentemente tontolona.

Un concentrato di azione, senso dell'amicizia mai tradito, cialtroneria no limits, voglia di trasgredire ma sempre con giudizio. Insomma, un capolavoro. Non si può prescindere da «The Persuaders» per conoscere Roger Moore e non si può scindere Roger Moore da Tony Curtis. Ogni volta in cui (poi) hanno lavorato da soli, ho sempre sentito, forte, il desiderio di rivederli insieme.





giovedì 27 ottobre 2016

ADDIO A LUCIANO RISPOLI * QUANDO LA NOSTRA TV PARLAVA IN ITALIANO

Stanotte, dopo lunga malattia, se n'è andato a 84 anni Luciano Rispoli, un (autentico) signore di un'era televisiva neppure così lontana, che oggi ha lasciato spazio al trashume dei reality.
Mai sopra le righe, mai volgare, Luciano, che ho avuto la fortuna di conoscere, lavorò a lungo in Rai, vivendo l'apice della sua popolarità sulla prima rete grazie a «Parola mia», giocoso programma che mirava a riportare in auge il buon italiano. Grazie soprattutto ai simpatici contributi di un linguista, il professor Gian Luigi Beccaria. Il conduttore divenne così popolare che fu ingaggiato come primo testimonial dell'euro, al momento del passaggio alla moneta unica. Per darle credibilità utilizzando la sua. Enorme.

Sguardo sveglio e risata squillante, ma piglio all'occorrenza severo, di chi non si fa spiegare troppo da altri come funzionano le cose, Rispoli ha avuto tra i suoi collaboratori il giornalista e critico televisivo Mariano Sabatini, che negli anni è diventato praticamente uno di famiglia, un amico vero, e al quale va il mio pensiero in questo momento.

Dopo un periodo di appannamento di visibilità mediatica, prima della malattia, Rispoli (che la tv negli ultimi anni ha messo da parte, e di questo soffriva) si rilanciò grazie al salotto con uso di ospiti di «Tappeto volante» su TeleMontecarlo, accanto a Melba Ruffo.
Per ricordarlo degnamente in maniera simbolica, sarebbe bello che i concorrenti del «Grande Fratello Vip» fossero costretti per una settimana a tentare di parlare in italiano.

martedì 28 giugno 2016

CIAO BUD SPENCER, E GRAZIE ANCORA PER QUELLA FOTO AI PIEDI DELLA LEGGENDA

Seduto in spiaggia ai piedi di uno dei miti della mia infanzia, della leggenda vivente, per una foto-ricordo che non dimenticherò mai. Mi veniva quasi di cantare «Come with me for fun in my Buggie...». Ma sono stato zitto. In religioso silenzio.
Era l'estate del 2009, a Ischia, e questo è il mio unico e ultimo ricordo di quel geniaccio di Bud Spencer, all'anagrafe Carlo Pedersoli, morto oggi a 86 anni. Un ex nuotatore prestato al cinema che con l'amico Mario Girotti (Terence Hill), ha dato vita alla più entusiasmante coppia di scazzottatori, anzi sarebbe meglio dire scazzott-attori della storia del cinema italiano. Retequattro sulle repliche dei loro film campa di rendita dalla notte dei tempi, più o meno sempre con i medesimi (onestissimi) ascolti.

Ero lì per un servizio per il mio giornale, e Bud girava una fiction Mediaset, «I delitti del cuoco». Una cosetta all'acqua di rose, e ne era perfettamente consapevole. Ma credo che il vecchio toro non amasse molto restare inattivo, nonostante il caldo, la fatica e i quasi 80 anni. Nel cast in quell'episodio c'era anche una Sara Tommasi che non aveva ancora smarrito la via, per così dire.
Il mio Mito parlò tanto, con la saggezza scafata di chi in vita sua ne aveva viste di tutti i colori. Accennò anche a un nuovo progetto, ma non disse altro, un po' ossessionato dall'idea che glielo potessero scippare. Alla fine dell'intervista chiesi a Bud la cortesia di una foto per la mia galleria dei ricordi. Fu subito disponibile, anche se gli spostamenti del guerriero inevitabilmente fiaccato dall'età risultarono lentissimi e un po' complicati. Alla fine si sedette su una sedia da regista e io mi piazzai ai suoi piedi, col culone sulla sabbia, massiccio quasi quanto lui. Cioè, lui massiccio. Io sovrappeso, ma questa è un'altra storia.

Se mi avesse assestato il suo leggendario pugno dall'alto, quello che fa incassare irreversibilmente fra le spalle la testa dell'avversario, non avrei fatto una piega. Anzi, l'avrei persino ringraziato.

venerdì 20 maggio 2016

SARCASTICI DA SOCIAL, RISPARMIATECI L'IRONIA AI #RIP SU MARCO PANNELLA


Ieri mi ha annoiato parecchio il coretto di quelli che: «Oh, oggi tutti pannelliani...», «Toh, è morto e ora tutti a osannarlo». 
A parte il fatto che è cosa nota, sgradevolmente nota ormai, che Facebook è la versione 2.0 delle necrologie dei giornali. E anche a me è capitato a volte di ironizzare su quest'abitudine al ‪#RIP facile, anzi facilissimo. All'esaltazione dei morticini freschi di cantanti e attori che sino a ieri il commosso esaltatore forse manco conosceva (o forse no), trasformati improvvisamente in monumenti da celebrare. E magari nella realtà erano inarrivabili stronzi. Il mezzo è questo, l'emotività di massa funziona così, facciamocene una ragione.
Per Pannella mi ha annoiato invece l'ironia dei soliti sagaci del socialino perché Pannella (che avrà fatto anche alcune spettacolari cazzate, non sono qui a negarlo) è uno che ha dedicato davvero la vita alla politica e agli ideali in modo pulito e onesto. È uno che ha cambiato la storia di questo Paese raggiungendo traguardi impensabili per il bene di tutti. Ha stretto alleanze a destra e manca ma non è stato né un servo né un voltagabbana. Ha visto gente e fatto cose. Utili. Concretamente. Siamo sommersi da una vita da politici mezze calzette che tirano a campare raccontando due balle e pensando soltanto alla poltrona e al bonifico. Quindi se muore Giacinto Marco Pannella io prima m'inchino, poi rispetto tutti quelli che lo onorano (al di là del credo politico), e guardo con una certa noia quelli che fanno dell'ironia sul dilagare dei post in morte di Pannella. Per una volta che uno li merita davvero... 

martedì 12 agosto 2014

RIP E «NANO NANO» ROBIN WILLIAMS, OVVERO MORK, IL PRIMO ALIENO BUFFO

Quando se ne va un grande del cinema ognuno ha un modo per ricordarlo. Perché ciascuno lo lega in realtà a propri, personali ricordi che ne esaltano di riflesso la grandezza. Ognuno ha un frame, un tassello della memoria staccato inavvertitamente dal puzzle, e che riaffiora. 
Robin Williams per me è stato tante cose: certo, c'era la suggestione evocativa de «L'attimo fuggente», la setta dei poeti estinti. C'era la follia di «Jumanji», la bontà consolatoria e un filo retorica di «Patch Adams», l'inquietante «One Hour Foto». Per me, che in definitiva sono sempre stato un bambinone, Robin è quel «NaNo NaNo» fatto con le dita aperte: indice e medio da una parte, anulare e mignolo dell'altra. Non tutti lo sanno fare. Ho imparato ai tempi di «Mork & Mindy», e chi se lo dimentica? «Mork & Mindy» era lui: ingenuità, candore, sentimentalismo, pochade e mistero. Una grande serie, forse sottovalutata. E pazienza se l'amica Mara Maionchi, con la quale ho parlato di recente, per caso, proprio di Williams (attenzione, non si riferiva a Robbie), l'ha sempre ritenuto un sopravvalutato di Hollywood. Forse per quella gigioneria clownesca che in realtà è sempre stata la sua forza. Per me lui nei panni di Mork, su un uovo, venuto da Ork, l'alieno buffo dopo i tanti alieni spaventosi di «Spazio 1999», era immenso.

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